Whitney

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È come sempre solidissimo il cinema dello scozzese Kevin Macdonald, al Festival di Cannes 2018 con Whitney, documentario che ricompone tassello dopo tassello la parabola della cantante afroamericana Whitney Houston, icona pop degli anni Ottanta e Novanta, risucchiata in un pozzo oscuro e profondo, fino alla morte prematura. Macdonald è chirurgico, scava e ricostruisce, allarga lo sguardo, ci immerge nella luce e nelle ombre. Era nata una stella.

Guide Me, O Thou Great Jehovah

Ha venduto 200 milioni di album. Detiene il record per il numero più alto di prime posizioni consecutive in classifica, superando Diana Ross & The Supremes e i Beatles. Nel 2006 il Guinness dei Primati l’ha dichiarata «l’artista più premiata e famosa di tutti i tempi». La sua canzone I Will Always Love You è il singolo più venduto di un cantante. Dietro i dischi, le voci, gli scandali, i segreti e la gloria, ecco la vera Whitney Huston… [sinossi]

Le intenzioni di Macdonald sono subito chiare. Come il consueto approccio, la puntuale documentazione, i grandi mezzi a disposizione. E quella credibilità costruita titolo dopo titolo, dal primo lavoro in famiglia The Making of an Englishman (1995), passando per Un giorno a settembre (1999), premiato con l’Oscar, fino ai più recenti Life in a Day (2011) e Marley (2012)1. Le scelte del cineasta scozzese e del montatore Sam Rice-Edwards ci mettono di fronte già nell’incipit di Whitney a fertili contrapposizioni: l’inizio scoppiettante, ritmato e danzante, con tutti i colori e le cotonature degli anni Ottanta, col reaganismo/edonismo alle stelle e il profluvio pop, è ben presto incrinato dal bianco e nero degli anni Sessanta, da un contesto storico, politico e culturale assai diverso, quasi speculare. L’estetica da MTV, quella sua superficie patinata e rassicurante, non può certo nascondere a lungo le cariche della polizia, la violenza, le proteste. Non in un documentario di Macdonald, che alla inchieste meticolose, a uno sguardo attento e al giornalismo d’antan ha dedicato una pellicola mainstream non banale, State of Play, stretto parente etico/morale del precedente L’ultimo re di Scozia.

Il contesto storico e politico, ma anche umano e famigliare, religioso e scolastico, è la base di partenza per raccontare la vita e la parabola professionale e personale di Whitney Huston, per sondare le contraddizioni, per scavare sotto la superficie – sotto i colori pop, sotto la pelle artificiale dei videoclip, dei servizi fotografici, dell’immagine abbacinante di cantante, modella, diva. Diva e donna felice. Bambina felice. Apparentemente.
Pezzo per pezzo, Macdonald ricostruisce infanzia e adolescenza della piccola Whitney. Della piccola Nippy. È più doloroso sentirla chiamare Nippy, vederla quando era Nippy, bambina e poi (straordinaria) adolescente. Bravissima, certo. Ma anche bellissima. Figlia della musica, principessina di una famiglia di incredibile talento: la madre Emily “Cissy” Houston, le zie Dee Dee Warwick e Dionne Warwick. E, immancabilmente, figlia di Dio – la chiesa battista occupa una posizione centrale nella vita della sua famiglia, nel bene e nel male.

Macdonald è chirurgico, scava e ricostruisce, allarga lo sguardo, ci immerge nella luce e nelle ombre. Mette insieme i pezzi di un microcosmo dorato (la gavetta musicale con la madre, la scuola di prim’ordine, la chiesa, il quartiere lontano dai pericoli e dalle difficoltà della comunità afroamericana) e poi, uno a uno, li seziona, analizza, rovescia.
Incalzante come un’inchiesta giornalistica d’antan, ma anche come un melodramma famigliare degli anni Cinquanta, Whitney è un susseguirsi di informazioni, suggestioni, immagini, domande. E risposte. Il colpo in canna di Macdonald (l’abuso subito da bambina, proprio all’interno del nucleo famigliare, tra i sette e i nove anni) ha fatto subito il giro del mondo, riaprendo la questione Whitney Huston e condannando probabilmente Dee Dee Warwick a una postuma ed eterna gogna, ma sono altri i tasselli da tenere a mente. La scabrosa rivelazione finale non cala infatti dall’alto, ma è quasi il naturale punto di arrivo della sistematica decostruzione della famiglia Huston, che sulle spalle della figlia prediletta si è appollaiata, ha goduto di fortune e baccanali, restando impavidamente a guardare la parabola discendente della diva. E allora torniamo all’incipit programmatico, alla superficie e al suo svelamento, alle contrapposizioni tra l’immagine proiettata verso l’esterno e la più complessa e cupa realtà. Al destino speculare della figlia. A quel Whitney/Whitey che suonava come una condanna della frangia più estrema della comunità nera, ma che ha diversi piani di lettura: da un lato, l’inno nazionale cantano al Super Bowl del 1991, una canzone mal digerita dagli afroamericani; dall’altra, i muri abbattuti dai suoi successi, la musica (anche) nera che entra in tutte le casa, un ruolo hollywoodiano che prima di lei era appannaggio di dive rigorosamente bianche. In questo senso, l’intervento più interessante è proprio quello di Kevin Costner, il suo bodyguard di celluloide, che coglie perfettamente il senso del finale di Guardia del corpo, il valore di quel movimento di macchina, di quel bacio. Era nata una stella. I Will Always Love You.

Note
1 Nipote di Emeric Pressburger, al quale ha dedicato il suo primo documentario The Making of an Englishman, Macdonald può vantare una valida filmografia anche sul versante fiction. Citiamo quantomeno L’ultimo re di Scozia (2006), State of Play (2009), The Eagle (2011) e il film TV Oasis (2017). Tra i documentari che hanno goduto di popolarità e ampia distribuzione segnaliamo La morte sospesa (2003) e Il nemico del mio nemico – CIA, nazisti e guerra fredda.
Info
La scheda di Whitney sul sito di Cannes 2018.
Il trailer originale di Whitney.
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