Shadow

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Con Shadow – fuori concorso a Venezia 75 – Zhang Yimou torna al wuxia e lo fa ritrovando quel po’ d’ispirazione che gli consente di realizzare un film di buon intrattenimento, nonostante un incipit eccessivamente verboso.

L’ombrello dalle lame rotanti

La storia di un potente re e del suo popolo che, cacciati dalla loro terra, desiderano riconquistarla. Il re è feroce e ambizioso, ma le sue motivazioni e i suoi metodi sono misteriosi. Il suo gran generale è un visionario, mosso dal solo desiderio di vincere la sua ultima battaglia, ma costretto a imbastire i suoi piani in segreto. Le donne del palazzo sono figure tragiche, strette tra l’essere riverite come dee e trattate come semplici pedine. Poi c’è il cittadino comune, la “persona qualunque” intorno a cui ruotano le forze inesorabili della storia, sempre pronte a inghiottirla. [sinossi]

Dopo un action come l’anglo-cinese The Great Wall, ‘corretto’ ma freddo per via della eccessiva operazione commerciale che vi era alla base, Zhang Yimou torna al wuxia totalmente mandarino con Shadow, presentato fuori concorso a Venezia 75, e riesce a ritrovare quel po’ d’ispirazione che sembrava aver smarrito in una sequela di film grossolanamente melodrammatici (come ad esempio Lettere di uno sconosciuto). E, anzi, senza voler ritentare di imporre la soluzione ecumenica proposta proprio in The Great Wall, che puntava a un pubblico globale, in Shadow Zhang Yimou si rifà più direttamente alla tradizione culturale del suo paese, rielaborando Il romanzo dei tre regni, alla base di tanti adattamenti cinematografici, tra cui quello di diversi anni fa di John Woo (che rappresentò, tra l’altro, il primo serio tentativo da parte della Cina continentale di inglobare l’altissimo mestiere del cinema honghkonghese).

Rispetto a tutto questo Shadow fa un passo indietro e si pone prima di tutto semplicemente come film invece che come una astuta mossa produttiva di geopolitica. Ed è, in fin dei conti, un bene a giudicare dal risultato. Certo, il racconto è estremamente farraginoso, e la vicenda di un’ombra che si è sostituita all’importante ufficiale rifugiatosi nei sotterranei del palazzo del re (e i due hanno anche la moglie dell’ufficiale che, sostanzialmente, finiscono per litigarsi) non emerge con la dovuta caratura, annacquata da una sequela di dialoghi verbosissimi nella prima parte, utili teoricamente a illustrarci la situazione in campo e invece dannosi anche per il modo estremamente statico in cui sono girati. Pian piano però emerge una messa in scena stilizzata e quasi astratta, oltre a un ragionamento sullo yin e sullo yang (e dunque sul buio e sulla luce, sul maschile e sul femminile), che – insieme – riescono a dare un po’ di corpo a Shadow. Tanto che poi, nella seconda parte, Zhang Yimou – pur avendo preparato con eccessiva difficoltà il terreno – si scatena in una serie di affascinanti soluzioni visive, in coreografie a tratti abbacinanti (come quel crepaccio che rappresenta l’unico passaggio per entrare nella città che il re e l’ombra vogliono riconquistare) e in un discorso simbolico che si fa finalmente più chiaro. D’altronde lo sviluppo di una tecnica di difesa/attacco che deve recuperare degli elementi femminili, attraverso l’utilizzo di un’arma letale rappresentata da un ombrello a lame rotanti che fa strage di nemici, è il contributo decisivo perché si sviluppi un ragionamento sul doppio e sulla confluenza e ambiguità di opposti, che rappresentano il vero nucleo concettuale di Shadow.

E poi, finalmente, si vede il sangue! Al contrario, infatti, del perbenismo visivo cui si assisteva in The Great Wall, dove si moriva senza vedere scorrere neanche un po’ di liquido ematico, ma anche a differenza di Hero e di La foresta dei pugnali volanti – che erano impostati su eleganza e svolazzi continui (e affascinanti) di regia e personaggi – qui in Shadow Zhang Yimou sembra riscoprire il lato materico, terragno del suo cinema (così presente, ad esempio, nel suo esordio, Sorgo rosso). Dunque, tra la pioggia che scorre battente, il fango che limita i movimenti dei contendenti in battaglia e il sangue che esce copioso dai corpi dei vinti (in particolare, si pensi alla scena della principessa, il cui volto si colora tra acqua della pioggia e rosso che esce dalle sue ferite) si finisce finalmente per assistere a un action prodotto dalla Cina continentale in cui si osa un po’ di più in quanto a spessore, cupezza, visceralità e consistenza delle atmosfere e delle situazioni, dove per una volta non si cede alla facile tentazione di un’immagine iper-digitalizzata in cui tutto sembra posticcio e incorporeo. Se, questo sia però il segno di un leggero cedimento delle maglie della censura mandarina, è ancora presto per dirlo.

Info
La scheda di Shadow sul sito della Biennale.
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