Benvenuti a Marwen

Benvenuti a Marwen

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Con Benvenuti a Marwen Robert Zemeckis ragiona una volta di più sul concetto di perdita (della memoria, degli affetti) e sulla dipendenza come unico modo per affrontare la realtà. E la finzione. Un’opera dolorosa e tenera con protagonista uno splendido Steve Carell.

Duty Now for the Future

Mark Hogancamp è vivo per miracolo, ma non ha più memoria di sé, in seguito al pestaggio omofobo subito da parte di cinque teppisti. Per reagire alla sua situazione costruisce una storia fittizia che lo vede protagonista nella II Guerra Mondiale, in lotta contro i nazisti. I suoi protagonisti? Delle bambole e dei pupazzi che va rivivere attraverso le fotografie in un Belgio immaginario ricostruito nel giardino di casa… [sinossi]

È un cinema di voli (pindarici) e di cadute (reali) quello che Robert Zemeckis sta costruendo pezzo dopo pezzo, puzzle in fieri che unisce dolore e utopia, spinta propulsiva – anche al plutonio… – e catastrofe personale e universale. Volano, i personaggi di Zemeckis, catapultati in avventure in America Latina o verso il futuro, dove non c’è bisogno di strade. Vola anche Hoggie, soldato dell’esercito statunitense che a bordo del suo aeroplano attraversa i cieli del Belgio nel cuore della Seconda Guerra Mondiale. I nazisti abbattono il velivolo, ma Hoggie sopravvive, trova delle scarpe col tacco a punta e le indossa e con quelle affronta i soldati. Quando è sul punto di soccombere una squadra di guerrigliere lo salva massacrando la pattuglia tedesca. Cade con l’aereo Hoggie – così come si sfracellava al suolo il pilota Whip Whitaker in Flight, ma anche l’ingegnere Chuck Noland in Cast Away –, nella sequenza iniziale di Benvenuti a Marwen, diciannovesimo lungometraggio diretto da Zemeckis. Anche Allied si apriva su una discesa al suolo, in quel caso programmata e intrapresa con un paracadute da Max Vatan/Brad Pitt. C’è un momento di estasi, nella vita dell’uomo, in cui si può galleggiare al di sopra della materia terrestre, credendosi immortali o intoccabili: al di sopra dello spazio e del tempo. Ma arriva sempre il momento in cui quell’istante si trasforma in realtà, e svela il suo volto amaro, e difficile da digerire o affrontare.

Benvenuti a Marwen narra proprio di questo, del risveglio dopo la caduta, della necessità di confrontarsi con la realtà e di trovare il modo – attraverso l’utopia del fantastico – di convivervi. La realtà in questo caso è duplice, visto che la storia alla base del plot, quella del fotografo e artista Mark Hogancamp, è tragicamente vera. Nel 2000 venne pestato a sangue e ridotto in fin di vita da cinque omofobi all’uscita di un bar, e quando riemerse dal coma – il risveglio dopo la caduta – non aveva più memoria del proprio passato. Traumatizzato, trovò nella costruzione di un mondo fittizio, Marwen (un immaginario paesello belga che edificò nel giardino della sua casa), il modo per rimettere insieme dei pezzi. Le bambole che utilizzava, a partire dal soldato Hoggie – che era ovviamente e palesemente il suo alter ego –, erano il modo per resistere nella realtà. Per essere ancora parte del mondo, aderendo a un “fantastico consapevole”.
Anche il cinema di Zemeckis è fantastico e perfettamente consapevole di esserlo. Ma al contrario di visioni che prevedono nella fiaba la completa evasione dalla norma, Zemeckis ha sempre visto il racconto di fantasia come l’estensione diretta di una lettura dell’umano, delle sue paure, della sua fragilità intima, della sua dipendenza. Mark è dipendente dalle medicine, certo, ma è ancor più dipendente dalla sua stessa valvola di sfogo, quella Marwen che non esiste ma è più reale del reale. Quando deve confessare la sua infatuazione alla nuova vicina di casa, Nicol, Mark non trova nulla di più naturale che il far “fidanzare” il pupazzo/Hoggie con la bambola/Nicol, la nuova arrivata nella famiglia. Perché Mark, nella sua ennesima dimostrazione della necessità di trovare il reale nel mondo della fantasia, mette in scena nel suo teatrino privato gli uomini e le donne che fanno parte della sua vita reale. Mette in scena anche coloro che lo pestarono, ovviamente nelle vesti di nazisti. Dopotutto quando Nicol gli chiede per quale motivo abbia scelto proprio la Seconda Guerra Mondiale come scenario delle sue avventure non esita a rispondere “Almeno in quell’occasione eravamo i buoni”.

Non solo la necessità di esistere di nuovo, dunque, ma anche quella di marcare il terreno come “eroe”, “buono”, “salvatore”. Zemeckis racconta un’altra personalità addicted, perché il suo campionario umano non prevede se non in alcuni casi specifici la possibilità che l’umano sia al di sopra delle meschinità con cui si trova a confrontarsi. L’eccezione è ovviamente Forrest Gump, ma quell’ingenuità è da considerare parte del lieve ritardo mentale del personaggio. Gli altri non possono svicolare dal confronto con i propri demoni. Ci sono molti demoni, in Mark, ma quello principale riguarda la perdita di memoria del passato. Non esiste un “pre”, in Benvenuti a Marwen, perché nessuno sa cosa fosse la vita del protagonista prima dei nove giorni di coma cui venne costretto dal pestaggio. Lo spettatore giustamente deve rimanere all’oscuro di tutto questo, e se può dedurre dalle foto e dai documenti che Mark ha in casa che si sia passati per un divorzio, non ha diritto di andare oltre. Il dolore può essere affrontato solo in modo catartico, e non realmente condiviso – per quanto Mark sia circondato da un’umanità molto partecipe alla sua disgrazia, a partire dalle donne che lui trasforma in combattenti nel suo scenario creativo. La verità è che nonostante sia incentrato su Mark, Benvenuti a Marwen mostra una galleria di piccoli e grandi dolori: Nicol ha perso il figlio, ma nessuno si addentrerà mai nella voragine di quella perdita, e nel modo in cui la donna la sta affrontando.

In modo inevitabile Benvenuti a Marwen è ovviamente anche una ricognizione nell’immaginario di Zemeckis, che non può che sfruttare nel migliore dei modi la possibilità di trovare una volta per tutte il punto di unione tra le sperimentazioni in motion capture del trittico Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol, e il ritorno successivo al live action. Zemeckis trova in Mark Hogancamp il senso puro della sua poetica, la già citata crasi di volo pindarico e caduta reale. In quel punto di intersezione si trova il concetto di meraviglioso del cinema di Zemeckis, dallo spensierato I Wanna Hold Your Hand a oggi. Non è un caso che il regista trovi modo e senso, in Benvenuti a Marwen, per giocare con il proprio immaginario, nella citazione palese ed evidente di Ritorno al futuro (dopotutto Mark è pur sempre senza passato, e ne ricostruisce con la mente uno puramente storico) ma anche in quella di Allied, il cui titolo campeggia sul camion dei traslochi che porta i mobili in casa di Nicol. Non si tratta di un vezzo, ma di una dichiarazione di appartenenza. A suo modo di una dipendenza, nei confronti del cinema e della sua capacità di ri-costruire l’umano, di ricomporre i traumi. Di tornare a vivere.

Info
Il trailer di Benvenuti a Marwen.
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