Intervista a Sergei Loznitsa

Intervista a Sergei Loznitsa

Nato nella Bielorussa sovietica ma vissuto a Kiev, Sergei Loznitsa è un filmmaker con un passato di matematico, ha lavorato nel campo dell’intelligenza artificiale prima di iscriversi al Gerasimov Institute of Cinematography (VGIK). Dal 1996 ha diretto 19 documentari, mentre il suo debutto nella fiction, con il film My Joy, lo ha portato sulla Croisette a competere per la Palma d’Oro, come con il successivo Anime nella nebbia, che poi ha vinto al Trieste Film Festival 2013. Torna sulla Croisette nel 2018 con Donbass che gli vale il premio alla regia di Un Certain Regard. Mentre i suoi documentari The Event e Austerlitz sono passati a Venezia.
Abbiamo incontrato Sergei Loznitsa durante il Trieste Film Festival 2019.

Uno degli elementi tipici del tuo cinema, sia nei documentari che nei film di fiction, è la folla, le masse di persone, che possono assumere un valore completamente diverso. C’è la gente che lotta per i propri diritti e reagisce a situazioni politiche avverse, come in The Event o in Maidan, ma c’è anche la folla stupida, dalle grandi dabbenaggine e superficialità che si fa i selfie nel campo di concentramento in Austerlitz, o con un uomo oggetto di linciaggio come in Donbass. Qual è il significato, l’importanza della folla nel tuo cinema?

Sergei Loznitsa: Non ne ho un’idea precisa, è un qualcosa di astratto. Forse tutto ha origine dal fatto che non mi sento a mio agio tra la folla. Ma noi viviamo in un mondo dove le masse esercitano sempre più influenza sull’individuo. Sai da dove è venuta l’idea di creare il walkman, che ti permette di ascoltare la musica e divertirti portandotelo con te? Ho letto da qualche parte che è un’invenzione della Sony, quindi l’idea è venuta in Giappone. Difficile che una simile idea possa essere venuta nella taiga, dove capita di incontrare persone molto meno spesso. La nostra civilizzazione si sviluppa dove la gente è molto più concentrata, cioè nelle grandi città. Siamo anche testimoni di come queste città crescano e di come le città multiculturali siano costruite e si sviluppino. Come per esempio Dubai. Cinquant’anni fa in quel posto non c’era neanche una città, e ora ci sono 5 milioni di persone. Questo è come un grande esperimento sul terreno comune che può esserci tra tutte queste persone. Su come trasformi la nostra percezione, la nostra personalità, e in fondo la realtà stessa e la nostra cultura. Quindi non so, tocco solo tutti questi punti. Vengo da un paese dove il concetto di fossa comune, la sepoltura senza nomi, è un eufemismo. Posso essere stato influenzato da queste esistenze senza destino, senza biografia delle persone che sono vissute. Noi sappiamo solo che sono vissute e conosciamo i numeri ma non sappiamo nulla di loro. Non so come la cultura si trasmettesse all’epoca dei kurgan, o come si trasmettesse nei tempi in cui non c’era l’alfabeto. Vengo da un paese dove l’alfabeto è comparso nell’XI secolo, da quello greco. Non è venuto da solo e ora noi parliamo in russo, ucraino, o cobol, il linguaggio del computer. E quando vogliamo prendere come punto di riferimento della storia e della società i Romani, i Greci e l’Europa Centrale, dimentichiamo che Omero già aveva scritto i suoi testi e che la Bibbia esisteva già in pergamena e sulla pietra e già c’era stata la civiltà sumerica. Così viviamo in un’epoca in cui, per la tecnologia, siamo molto vicini l’uno con l’altro e ci influenziamo molto velocemente, e siamo sempre circondati da masse. La maggior parte di noi, non le genti di montagna, vive in città. Ho vissuto in un’epoca dove sono successe tante cose, sono accadute rivoluzioni. E dove ho potuto osservare la folla e il comportamento delle masse, delineare quale tipo di sviluppo il mio paese ha scelto, e tutto ciò è molto interessante. E posso aggiungere a tutto questo, che non ne conosco i motivi. Io sono un matematico e sono certo che, con i cambiamenti tecnologici e di civiltà, possiamo osservare le forze che influenzano la società da un livello alto, non da un livello privato, non dal livello della biografia di qualcuno. Ciò mi ricorda un saggio del grande poeta russo Osip Mandelstam dal titolo La fine del romanzo, in cui dice che i romanzi rappresentano una forma letteraria conclusa perché è finita la biografia privata in senso allegorico. E la biografia di tutti noi si costruisce per caso, per incidenti, non dipende dalla persona ma più dalle circostanze. Questo tipo di concetto si avvicina a Metropolis di Fritz Lang. Questa è l’idea: quando l’individualità è semplicemente usata come sistema. Un po’ meno di cento anni dopo Metropolis, ho cominciato a scoprire questa condizione nel cinema documentario. Forse arriverò a fare un documentario su una determinata situazione, ma mi interessa questa idea che ci connette, tutti noi. E mi interessa coglierla, mostrarla soltanto dal punto di vista che non rappresenta quello individuale. Sto cercando il modo di farlo, nei documentari e nella fiction.

Parlando di punti di vista, come mai nel finale di Donbass – dopo che le persone sono state uccise nella roulotte e accorrono le forze dell’ordine, i soccorritori e tutti gli altri, compresa la troupe televisiva che fa le prove con le persone da intervistare – la macchina da presa osserva dall’alto e da lontano gli eventi?

Sergei Loznitsa: In quel momento la camera dalla storia va nella posizione della statistica, proprio una camera che ci osserva, che è una distanza, un modo di ignorare quello che succede, è solo osservazione. Diventa la prova di un documentario. Per quell’episodio radunai persone che svolgevano davvero quelle professioni, poliziotti, dottori, quelli che raccolgono i cadaveri, e poi la gente che accorre quando avviene l’esplosione, tutti professionisti, giornalisti professionisti, anche testimoni professionisti [ride, n.d.r.]. Invitai tutti loro, chiedendo al mio assistente di organizzare la situazione, e fu molto semplice da spiegare a loro: dovevano fare quello che fanno di solito in quel tipo di situazioni nella vita reale. È andata così. E in qualche modo dovevo chiudere quel set. Perché quando la camera chiude, quando usiamo il montaggio siamo dentro la situazione e io volevo spostare in tempo lo spettatore al di fuori, per osservare da una certa distanza.

Anche perché nel film ci sono i cameraman, dei punti di ripresa interni, e alla fine è come se il punto di vista si voglia differenziare da questi, alzandosi a un livello superiore e guardandoli così dall’alto.

Sergei Loznitsa: È anche una mia asserzione. Rivolgendomi a tutta la gente che ha partecipato a questo film: «State attenti, anche voi potreste essere una vittima».

Il tuo cinema, pur trattando soggetti molto drammatici, è pieno di momenti grotteschi, tra Jacques Tati e il teatro dell’assurdo, basta pensare alla scena del matrimonio in Donbass. Perché inserisci queste situazioni?

Sergei Loznitsa: Non è una mia scelta. Una volta trovai un libro negli Stati Uniti, pubblicato in USA in lingua russa, di un editore che pubblicava cose dimenticate. Cose che gli emigrati trovano in archivio. Era un documento da archivi governativi. Le carte erano state rubate da soldati tedeschi a Smolensk, in un ufficio della milizia. Di che si trattava? Quelle cose che la gente segnala alla polizia a proposito dei vicini, li accusano e scrivono, come dire, cose diverse. In russo si dice “donos”: quando scrivi qualcosa sul tuo vicino e questi può venire accusato dalla polizia. Carte anonime. Queste lettere erano tutte scritte in modo simile, mi resi conto, e sembrava lo stile di Daniil Kharms, lo scrittore di racconti dell’assurdo che fa parte del movimento Oberiu dell’avanguardia letteraria russa. E tutti lo trovano divertente, una buona creazione, interessante e cerebrale, per questo trovo che sia proprio come il buon filmmaker di documentari, lo scrittore di documentari. Tutto ciò che possiamo incontrare in quel testo, scritto dalla gente comune di quel luogo, si trova anche in quella letteratura dell’assurdo. È solo una riflessione. Perché racconto questa storia? Perché un video amatoriale che ho trovato su youtube era già in quell’ottica, c’era già il grottesco e si poteva anche ridere di tutte quelle situazioni, trovare qualcosa di divertente e strano e anche assurdo. E perché succede nella vita reale? Lo dice l’ottimo critico letterario Michail Bachtin nel suo saggio su François Rabelais e sul suo romanzo grottesco Gargantua e Pantagruel. Un saggio scritto negli anni ’30, quando pensava che, tramite Pantagruel, Rabelais volesse descrivere la realtà circostante. Una realtà che contiene elementi di grottesco con la gente che non vive ma imita la vita, cercando di nasconderlo. Come se qualcuno venisse da me per fare un’intervista, ma il suo obiettivo non è l’intervista, lui è qualcos’altro, cerca di essere un giornalista e la sua posizione si avvicina all’essere buffa in certi momenti. Ed è una sorta di tradizione che si ripete. Quando il potere non è il potere, la corte non è la corte, una decisione non è una decisione e ai giornali piacciono tutte queste facciate che sono false facciate. Dietro queste facciate c’è una realtà che non possiamo riconoscere perché non riusciamo a vedere. Ma questa facciata a volte, sotto i riflettori, comincia a creare questo senso del grottesco, quando la guardi precisamente alla fine, in quel posto. In Russia per me ora è tutto assolutamente grottesco, tutti questi pericoli, questo sangue. Sono il grottesco in quel posto. E il grottesco appare come fallace. Era così semplice come nella vita reale.

Info
La pagina Wikipedia dedicata a Sergei Loznitsa.
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