Krasue: Inhuman Kiss

Krasue: Inhuman Kiss

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Ben più vicino ai toni malinconici del melodramma che alla tensione dell’horror, il Krasue: Inhuman Kiss d’esordio del giovane thailandese Sittisiri Mongkolsiri parte da uno dei più tradizionali e terrificanti spiriti femminili del folklore locale per ribaltare, attraverso un radicale cambio del punto di vista, gli stilemi del genere. Al Far East.

Un amore a tre teste

Una krasue, donna di giorno e mostro di notte, terrorizza un villaggio rurale. Nonostante il clima di paura, la giovane Sai ha il cuore diviso fra due amici e un lato oscuro: è lei la krasue. Sai cercherà di mantenere il segreto, ma l’arrivo di uno spietato cacciatore di demoni complicherà le cose. [sinossi]

Sembra essere quello del più classico film horror asiatico di demoni e spettri, l’incipit di Krasue: Inhuman Kiss, con gli immancabili bambini che si inoltrano nella casa maledetta al cui interno secondo leggenda sarebbe intrappolata la locale krasue, e con la conseguente e inevitabile carneficina compiuta dal mostro perfettamente orchestrata fra attese, figure sfocate che fluttuano alle spalle, jumpscare sui volti e subliminali fuori campo verso il buio della notte. Gli intenti del giovane regista thailandese Sittisiri Mongkolsiri, al suo esordio in solitaria al lungometraggio dopo aver partecipato nel 2013 al collettivo Last Summer, si spingono tuttavia ben oltre la mera riproposizione di stilemi efficaci quanto ormai spesso stantii nella loro formula di “usato sicuro” cavalcata da buona parte dell’horror contemporaneo. Dimostrare di conoscere e di saper maneggiare alla perfezione la grammatica orrorifica è anzi, per Krasue: Inhuman Kiss e per il suo giovane autore, solo il necessario punto di partenza, il ribadire quelle regole dalle quali consapevolmente scartare e ramificarsi, trasformando progressivamente le atmosfere orrorifiche in quelle di un melodramma dolce e straziato in cui si ribaltano i buoni e i cattivi, in cui ci si scambiano in continuazione i ruoli fra chi caccia e chi fugge, e in cui l’amore è tenerezza e sogno di normalità ma anche e soprattutto dolore, disillusione, gelosia, inganno, violenza, maledizione, vendetta. Basta un cambio del punto di vista per rileggere totalmente sia la figura folklorica sia le forme del genere, sparigliando in un sol colpo le carte cinematografiche e quelle culturali, e spingendosi così ancor più a fondo nel folklore e nella cultura popolare. Basta guardare e narrare la storia dalla parte della creatura demoniaca, alla ricerca delle sue emozioni, alla ricerca delle sue contraddizioni, alla ricerca del suo dolore nel non poter fare a meno di trasformarsi, donna/krasue sospesa fra l’amore per/di due uomini e fra il rimorso, il tentativo di non nuocere e l’istinto di sopravvivenza, mentre intorno a lei il piccolo villaggio, aizzato da una legione di misteriosi e ambigui cacciatori di spiriti stranieri, batte i boschi alla sua ricerca allenandosi a sparare.

Non è certo la prima volta che il cinema thailandese porta sullo schermo la figura della krasue. Era di una testa volante, per esempio, la bellezza demoniaca del Demonic Beauty realizzato nel 2002 da Bin Banluerit su sceneggiatura di Yuthlert Sippapak, così come era una krasue quella che quattro anni dopo lo stesso Sippapak metterà in scena anche come regista nel suo Ghost of Valentine. Lo script di Krasue: Inhuman Kiss, firmato da Chookiat Sakveerakul su soggetto del regista Sittisiri Mongkolsiri, è però il primo che ancor prima del radicale cambio di tono e di genere vuole creare un’empatia così profonda da ribaltare in sostanziale e (im)possibile eroina la figura della donna-mostro, sviluppando proprio sulla sua emotività – e su quella di chi è a conoscenza del suo orribile segreto e la protegge con amore dalla furia cieca e vendicatrice degli uomini – la dissolvenza dei generi dal terrore al romanticismo fino alle lacrime d’addio. La figura della krasue, del resto, è a ben vedere di per sé perfetta per aprire alle possibili interpretazioni e per scatenare le variazioni sul tema: normale donna di giorno, che vive, conosce, ride, scherza, ama e lavora, e terrificante mostro di notte, con la testa costretta da un antichissimo anatema a staccarsi dal resto del corpo per volare affamata, con gli organi interni a penzoloni, alla ricerca di carne uccidendo e cibandosi di chiunque incontri sul suo percorso. Una creatura che è insieme buona e malvagia, bella e mostruosa, spaventosa e fragile, sorta di archetipico Jekyll/Hyde che qui, fra una trasformazione e l’altra, cerca di amare, di sopravvivere, di essere normale, e persino di “curarsi” con (inedite) erbe che bloccano temporaneamente lo staccarsi della testa e il sopraffarla del mostro. Uno spirito diabolico che uccide, fagocita, devasta e, sputando nell’acqua, si riproduce fra le donne e mangia dall’interno gli uomini che ne bevono, e al contempo una donna – o, come nel caso della protagonista Sai, un’adolescente – che magari il mattino dopo si rende conto di quello che ha fatto vedendo le macchie di altrui sangue sul letto e prova un profondissimo senso di colpa per una malvagità della quale non è in alcun modo colpevole. Carnefice di uomini e bestiame fra mucche divelte, neonati rapiti e bambine contagiate con la maledizione e prontamente uccise dai guerriglieri appena trasformate, eppure in realtà vittima di un qualcosa di soprannaturale e incontrollabile come il maligno, come l’odio, come la fatalità, come un amore troppo grande, totalizzante, malato e impossibile fra lei, lui e l’altro, o forse come la propria stessa genesi.

Per amore si nutre il prossimo, lo si cura, si è disposti a mentire a chiunque altro e persino ad arruolarsi con il nemico per conoscerne le mosse, per mandarlo fuori strada, per convogliarlo su false piste tenendolo il più possibile lontano dall’amata. Ma per amore – anche – si soffre, si uccide, si muore e ci si trasforma, nell’intersecarsi delle traiettorie una parabola melò, o forse di una favola nerissima di sentimenti e di morte sospesa fra le creature orrorifiche, la caccia, la guerriglia e la fuga, in cui le maledizioni ereditarie sono solo una complicazione delle seduzioni, dei sorrisi, dei silenzi, dei più amari farsi da parte. Semmai il paradosso è come Krasue: Inhuman Kiss, nel suo lavoro non certo privo di spunti teorici di ribaltamento del genere e del punto di vista, finisca per pensare e oliare a dovere gli aspetti più difficili del film mentre, alla lunga, commette qualche sbavatura su quelli più facili, con una narrazione che non è scevra di qualche reiterazione e schematicità, con almeno un paio di soluzioni di immaginario non particolarmente eleganti (si veda il campo di frutti magici, profondamente interessante nell’inedita ricerca di antidoto da parte dei protagonisti eppure così stucchevole nella resa delle luci azzurrate che circondano le piante luminose nella notte), e soprattutto con la non brevissima serie di spiegoni che entra nella parte finale a dare senso e conferma a ciò che almeno in parte, compreso il mostro maschile Krahang nominato molto prima che l’unico indiziato possibile decida di (ri)prenderne le forme, era ampiamente prevedibile. Lo sfondo, forse per prendere le distanze dai possibili riferimenti, e dalle eventuali censure, della contemporanea dittatura militare, è la Thailandia della Seconda Guerra Mondiale. Una Thailandia che, al momento delle campagne giapponesi nel Sud Est asiatico partite subito dopo Pearl Harbor, aveva preferito allearsi con l’Impero del Sol Levante senza opporre alcuna resistenza all’avanzata nipponica. Ma questo sembra importare molto relativamente a Sittisiri Mongkolsiri, che del periodo bellico prende solo il sostanziale isolamento, fermi e impossibilitati a fuggire in attesa della fine della guerra, magari nella reciproca promessa dei giovani, a patto di rimanere vivi, di andare via insieme una volta finito il conflitto. La politica – sempre ammesso che di politica si possa parlare in un film che non vuole in alcun modo porsi come metafora – che (troppo) lateralmente e fra le righe entra nello scorrere di Krasue: Inhuman Kiss sta semmai negli studi del passato e della cultura popolare, nello scoprire la gelosia patriarcale che sta all’origine della maledizione, o ancora nei fondamentali interventi, e poco importa che si tratti della necessità di rimediare a un tragico errore passato, del monaco buddista, figura fondamentale della cultura messa in scena, che viene contattato per analizzare e tentare di risolvere la situazione fra storia e sociologia, saggi consigli e pallottole. È il primo dolore subito da una donna-mostro la vera maledizione delle krasue, in una storia di triangoli amorosi, tradimenti e gelosie destinata a ripetersi ciclicamente con l’ereditarietà e con il propagarsi del male. E proprio quando l’amore sembra poter vincere, ecco che diventa disperazione, tormento, vendetta, la misoginia di reazione del rivale. Un annichilimento che è primaria causa, molto prima che cura, dei mali. Fino al sangue o alle lacrime, per il dolore e per l’inevitabile distruzione di tutte le parti in gioco.

Info
Il trailer di Krasue: Inhuman Kiss.
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