Strategia del ragno

Strategia del ragno

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Strategia del ragno conferma, a un paio di mesi di distanza da Il conformista, la statura autoriale di Bernardo Bertolucci, la sua estetica, la sua potenza teorica. Prodotto dalla Rai e pensato anche per il piccolo schermo, è un film profondamente cinematografico.

Uccidere i padri

Athos Magnani, figlio di un eroe della Resistenza antifascista, torna nel paese natìo Tara, nella pianura emiliana. È stato richiamato lì dall’amante del padre, che vorrebbe far luce sulla morte dell’uomo, avvenuta nel 1936. [sinossi]

Nel 1968, nel pieno del maggio della Contestazione, Bernardo Bertolucci faceva terminare Partner con un salto nel vuoto, di un doppio che non sa accettare di essere unico, sdoppiato in sé. Due anni dopo lo sdoppiamento si ripete, e si rinnova l’incapacità di gestire il tempo, proprio e degli altri, collettivo e personale, unico e universale. Strategia del ragno si apre e si chiude su una stazione ferroviaria, simbolo del tempo laterale, dell’attesa e del passaggio, dello spostamento, della libertà illusoria (“il treno ha la strada segnata” canterà pochi anni più tardi Francesco De Gregori). Non c’è più bisogno di un salto nel vuoto, perché la morte è già vissuta in vita, nella ricerca perenne di un senso che dia spazio all’eternità, a quel grammo di gloria che si può definire imperitura.
Appare imperitura anche Tara, il luogo immaginario a cui torna Athos Magnani, figlio dell’eroe antifascista per eccellenza, colui che è caduto per la Causa. Si è immolato per la Causa, è morto per far sì che altri assaporassero la democrazia. Tara è un luogo immaginario e già mitico fin dal nome, che è antropologico e cinefilo allo stesso tempo. Tara è la collina su cui si erge la residenza di Ard-Rí na hÉireann, il “Re Supremo” nella mitologia irlandese, ma è anche ovviamente – e più notoriamente – la fattoria degli O’Hara, i protagonisti di Via col vento. È la reggia/prigione, la casa che è anche rimosso, storico e psicologico. Il duplice rimosso che porta con sé Athos figlio, che il padre non l’ha conosciuto anche se è identico a lui, “uguale uguale”: il rimosso politico di una generazione che non è cresciuta sotto il fascismo e l’ha già ridotto a istante della Storia, e il rimosso psicologico nei confronti di un padre che non c’è mai stato eppure prorompe nei nomi delle strade, nelle case del popolo, nelle statue in mezzo alle piazze.

In questo senso Tara non può che essere anche Parma, la città natale di Bernardo Bertolucci che è e rimarrà sempre il suo retaggio culturale e politico, come l’Alfredo Berglinghieri di Novecento che vuol essere a sua volta un socialista “dalle tasche buche” e per questo si nasconde sui binari del treno – ancora loro! – mentre i veri socialisti partono per la manifestazione nazionale. Tara è Parma, la città benestante e contadina, fascista e antifascista, padronale e sottoproletaria. La città che ha bisogno di un eroe da sbandierare, col quale proteggersi dai venti della reazione. La città da distruggere, come quel padre sempre presente (ed è anche Attilio Bertolucci, in una qual misura) eppure immateriale, e per questo imbattibile. Morto imbattuto. Eroe.
Subito dopo aver narrato il fascismo ne Il conformista (che partecipò nel giugno del 1970 alla Berlinale – che all’epoca si teneva d’estate – mentre Venezia accolse a settembre Strategia del ragno) Bertolucci scava il vero solco, narrando non solo il grottesco sopravvivere della sua generazione, ma anche e soprattutto la velleitaria supponenza del Mito, e la necessità di scardinarne le basi. Necessità impossibile però da mettere in atto nella realtà concreta. Si deve dunque ricorrere all’allegoria. Per far ciò Bertolucci non lascia nulla d’intentato, e proclama il proprio punto di vista a partire dai titoli di testa, lussureggianti nella riproposizione delle tele di Antonio Ligabue, lo svizzero di Guastalla, il pittore pazzo. Se ciò non bastasse come dichiarazione d’intenti, ecco il riferimento al testo da cui lo stesso regista è partito per scrivere la sceneggiatura, insieme a Marilù Parolini ed Eduardo de Gregorio: Tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis Borges. Borges e Ligabue lanciano già il guanto di sfida, e mettono in chiaro la profanazione del reale a supporto dello sconfinamento nel deliquio del reale, nel superamento di una materia chiara e semplice a vantaggio di una stratificazione tanto del discorso quanto dell’immaginario.

Su ciò che effettivamente Bertolucci narra in Strategia del ragno si tornerà tra poco. Val la pena infatti – forse più che in altre occasioni, anche con un regista particolarmente attento all’estetica come l’autore di Ultimo tango a Parigi e L’ultimo imperatore – soffermarsi sulle scelte di rappresentazione e di messa in scena operate nel film. Bertolucci, come anche ne Il conformista si avvale, come direttore della fotografia, della professionalità del giovane Vittorio Storaro, pur qui al lavoro insieme a Franco Di Giacomo. Storaro aveva composto la fotografia, solo un anno prima, dell’oramai dimenticato Giovinezza, giovinezza, film in cui Franco Rossi cancellava ogni forma utopica nel racconto della presa di coscienza antifascista. Storaro sviluppava movimenti di macchina ariosi, sfruttando le potenzialità del carrello. Sicuramente conscio di tutto ciò Bertolucci porta alle estreme conseguenze – toccando picchi estetici raramente raggiunti in seguito nell’utilizzo del mezzo – il discorso sulla carrellata, rendendola primo elemento teorico nella messa in quadro dello scorrere futile del tempo. In quelle carrellate, a volte ampie a volte brevissime – si veda in tal senso il duplice movimento, ad andare e tornare, compiuto dalla macchina da presa nella sequenza in cui Athos è seduto alla tavolata, e parla con gli ex compagni del padre – si cela l’illusione di un movimento che non è mai veramente tale, perché non esiste avanzamento a Tara, e per estensione nell’Italia pacificata degli anni Sessanta.
Bertolucci rivendica l’utilizzo puramente scenico dei veri spazi dell’amata Emilia-Romagna e della bassa Lombardia: Sabbioneta, Fidenza, Brescello, Pomponesco. Luoghi reali che nella riscrittura surreale diventano scenari, spazi per la rappresentazione, teatri eterni, vuoti e inutili, affollati di un pubblico che è lì solo per ribadire un concetto divenuto monito, ma non più realmente applicato. Proprio come il teatro, o lo spazio ecclesiastico, Tara è l’involucro che accoglie un rituale, anno dopo anno, dall’evento traumatico – nel senso anche di trauma/sogno – che diede vita alla leggenda. Al mito di Athos Magnani, l’eroe “vigliaccamente assassinato dal piombo fascista”. Come sarà anche in seguito (in tal senso molte parti di Novecento appaiono fortemente debitrici di Strategia del ragno) Bertolucci riflette sulla vita e sul cinema come teatro, proscenio, luogo della tragedia, o più raramente della farsa.

Per quanto riguarda il testo Bertolucci lavora sul superamento del reale per raccontare il sogno – che è forzatamente incubo – di assassinare il proprio padre, di far piazza pulita di un’eredità che è solo peso, gravame culturale e politico. Nella detection che il figlio inscena per scoprire la verità sulla morte del padre si scoperchia il vaso di Pandora di un luogo, di un territorio, di un modus vivendi, ma a rimanere fuori è il vero conflitto, quello che il protagonista non riesce a mettere in campo, e che vedrebbe l’un contro l’altro armati lui e il padre eroe. Lì si acceca la verità della ricerca, lì viene meno Athos figlio. In un procedimento che non è poi così dissimile dall’esperienza di Alfred Hitchcock, Athos finisce per cercare se stesso nel groviglio di un’umanità in cui non si riconosce, che non sa far sua. I flashback di cui è disseminato il film sono altri modi per eludere la verità del Tempo, ma servono anche per permettere ad Athos di uccidere il padre, dunque se stesso. Ucciderlo di nuovo rendendolo una volta di più eroe, parte principale del rituale sacro di una cittadina atea. Per questo non ha più senso fuggire da Tara. Non ha mai avuto senso. I treni accumulano sempre più ritardo, anche l’accelerato per Parma si fa lontano, irraggiungibile. Restano i binari, ma non c’è più modo di andare oltre, e l’erba li sovrasta. La metafora, calice da cui Bertolucci si è spesso assetato, non è mai stata così cristallina e potente.

Info
Una scena di Strategia del ragno.
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