La leggenda del serpente bianco

La leggenda del serpente bianco

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Presentato in una luccicante versione restaurata in digitale al Festival di Cannes 2019 nella sezione Cannes Classics, La leggenda del serpente bianco di Taiji Yabushita è il primo lungometraggio d’animazione a colori dell’allora nascente industria nipponica, tassello fondamentale per la costruzione di un impero che crescerà e muterà rapidamente tra gli anni Sessanta e Settanta. Il grande classico della Toei Dōga, sospeso in una dimensione produttiva ed estetica irripetibile.

L’Impero e l’industria

Xu Xian è un ragazzino gentile, di buon cuore, che vive sulle rive di un lago: un giorno al mercato compra un serpente bianco, ma gli adulti lo costringono a liberarlo in un campo. Passati alcuni anni, durante una notte tempestosa, il serpente si trasforma in una giovane donna, Bai Niang. La donna trasforma un pesciolino nella buffa Shao Qing, sua fedele servitrice. Una mattina, Xu Xian e i suoi due amici panda incontrano Bai Niang… [sinossi]
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In un certo senso, La leggenda del serpente bianco (Hakujaden) è un’opera fuorviante. Capitale, ma fuorviante. Certo, un classico intramontabile e una pietra miliare; il primo film d’animazione a colori; le fondamenta della Toei Dōga e dell’intera industria degli anime. Certo. Però, tra rotoscopio e quadri fissi, evidenti debiti disneyani e ispirazioni cinesi, il primo lungometraggio della (ri)costruzione giapponese sembra quasi sospeso in una dimensione altra, lontanissimo dall’industria degli anime che verrà di lì a poco, dall’estetica e dal linguaggio che segneranno l’animazione nipponica del piccolo e grande schermo.
Seguiranno, anno dopo anno, proprio per cercare di ricalcare l’inarrestabile produttività della Casa del Topo, Il piccolo samurai (1959) di Yabushita e Akira Daikuhara, Le 13 fatiche di Ercolino (1960) di Yabushita e Daisaku Shirakawa, Robin e i 2 moschettieri e ½ (1961) di Yabushita e Yūgo Serikawa e Le meravigliose avventure di Simbad (1962) del solito Yabushita e di Yoshio Kuroda. Quattro anni a ritmi matti e disperatissimi, tavola dopo tavola, fino a un’altra data chiave, a un altro snodo epocale: siamo nel 1963, Astro Boy (Tetsuwan Atomu) di Osamu Tezuka sta monopolizzando il piccolo schermo e la Toei distribuisce nelle sale Il piccolo principe e il drago a otto teste di Serikawa, graficamente assai distante dai film di Yabushita. Siamo a un passo dai Giochi della XVIII Olimpiade, ovvero Tokyo 1964 e la conseguente diffusione capillare dei televisori, e siamo a un passo dalle sperimentazioni dei lungometraggi minori, in primis Cyborg 009 (1966) e Cyborg 009: Monster Wars (1967), entrambi affidati al più cinematico Serikawa. Nel giro di pochi anni e di pochi film il modello Hakujaden è già ampiamente superato o quantomeno sostituito: stilizzazioni e non rotoscopio, fantascienza al posto dei classici orientali, innovazione e non tradizione. E, soprattutto, quel dinamismo così prepotentemente cinematografico che deflagrerà sul grande schermo e in casa Toei esattamente dieci anni dopo La leggenda del serpente bianco: la rivoluzione passa attraverso il meraviglioso fallimento de La grande avventura del piccolo principe Valiant di Isao Takahata, un vero e proprio balzo nel futuro.

Passato e futuro. Resta sospeso nel tempo La leggenda del serpente bianco, lungometraggio che forse nasceva già nostalgico, incurante delle linee e delle idee dei manga di Tezuka, coraggioso nel cavalcare quel rotoscopio che aveva affondato altri sventurati anti-Disney – i fratelli Fleischer (I viaggi di Gulliver, Hoppity va in città, Superman), che del rotoscopio erano stati gli inventori. La pellicola di Yabushita colpisce ancor oggi per la cura minuziosa dei dettagli, per le mirabilie cromatiche, per la proverbiale abilità di Yasuji Mori nel tratteggiare gli animali (evidente debito disneyano, nonché omaggio ai panda dei cugini cinesi, paciosi orsetti che ritroveremo protagonisti di alcuni mediometraggi nel biennio della pandamania: tra 1972 e 1973, Panda! Go, Panda! e Il circo sotto la pioggia di Takahata e Orsetto Panda e gli amici della foresta di Serikawa). Non c’erano ancora Takahata e Miyazaki, ma c’era già Yasuo Ōtsuka, che del futuro dinamismo fu uno dei paladini, forse il più influente. E c’era un giovanissimo Rintarō, perché La leggenda del serpente bianco è stato l’inizio di tutto: della Toei, dell’industria degli anime, della carriera e dell’ispirazione di almeno un paio di generazioni di animatori. I più importanti.

A un certo passato, per anni spazzato sotto il tappeto, si contrappone La leggenda del serpente bianco, film sentimentale, fantasy, cinese (e quindi del nemico), gentile ed elegante. E a colori. Speculare in ogni suo aspetto al primo lungometraggio d’animazione del Sol Levante, lo sfortunatissimo Momotaro, Sacred Sailors (1945) di Mitsuyo Seo, che proprio sulla Croisette nel 2016 era stato presentato in un’ottima versione restaurata. Un percorso di riscoperte dei classici dell’animazione che speriamo possa continuare a lungo; un percorso che potrebbe andare a comporre, edizione dopo edizione, una sorta di retrospettiva – manca nei grandi festival uno sguardo d’insieme sul cinema del passato. Dopo i piccoli paracadutisti di Momotaro, immagine involontariamente tragica, La leggenda del serpente bianco imprime indelebilmente nei nostri occhi la sequenza della tempesta e del pesce gatto, cavalcato da Shao Qing: molti decenni dopo, Ponyo correrà gioiosa e inarrestabile sulle onde anomale di Ponyo sulla scogliera. È una storia lunghissima, dall’Impero di Momotaro alla ricostruzione della Toei, dall’età dell’oro degli anni Settanta ai fasti dello Studio Ghibli, a Ōtomo e Kon, a Shinkai e Hosoda, al futuro che verrà.

Info
La scheda de La leggenda del serpente bianco sul sito di Cannes 2019.
Il dvd de La leggenda del serpente bianco.
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