Il lago delle oche selvatiche

Il lago delle oche selvatiche

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A cinque anni da Fuochi d’artificio in pieno giorno, che vinse l’Orso d’Oro a Berlino nel 2014, torna il cineasta cinese Diao Yinan che porta, stavolta in concorso a Cannes, il suo nuovo film: Il lago delle oche selvatiche è un violento e feroce noir, come il precedente, privo però della stessa carica politica.

Old Mother Goose

Il leader in fuga di una gang è in cerca di redenzione. Una ragazza in difficoltà rischia il tutto per tutto per guadagnarsi la libertà. Entrambi sono sotto assedio nelle nascoste rive del Wild Goose Lake. [sinossi]

Inutile girarci intorno. Di fronte a un film come Fuochi d’artificio in pieno giorno, che vinse l’Orso d’Oro alla Berlinale 2014, ci aspettavamo decisamente di più dal nuovo film di Diao Yinan, Il lago delle oche selvatiche, presentato in concorso a Cannes 2019. Quel che gli manca, rispetto al precedente, è la chiarezza del discorso, è la lucidità cinica e disperata del ragionamento sulla Cina contemporanea. Se quello, infatti, lo si poteva definire, volendo anche con qualche forzatura, un noir post-antonioniano – perché faceva del genere uno strumento per parlare d’altro – questo invece è in modo più evidente un film tipicamente di genere, dove solo in certe linee sovrastrutturali si può decifrare una riflessione sul proprio paese. Siamo, insomma, per Il lago delle oche selvatiche già nel campo dell’auto-compiacimento, del manierismo, del quasi-divertissement, dove la violenza esplode perché chiamata e prevedibilmente preparata e non in maniera inattesa e sconvolgente, come invece accadeva in Fuochi d’artificio in pieno giorno, dove si vestiva da amara constatazione dei rapporti ferini che governano la realtà cinese contemporanea.

Il protagonista di The Wild Goose Lake è una sorta di bogartiano anti-eroe, braccato dalla polizia e da suoi amici-nemici criminali, pronto a tutto pur di sopravvivere ma dotato anche di una sentimentale predisposizione verso il gentil sesso, che lo accompagna sia nella figura della moglie – da lui lontana, e in qualche modo sognata e richiesta – sia in quello della donna che si sostituisce alla consorte.
Abbastanza cervellotico nella costruzione narrativa, con qualche lungo flashback iniziale che smorza l’incipit strabiliante sotto la pioggia, colorato di risonanze (anche luministiche) alla Wong Kar-wai, Il lago delle oche selvatiche è dunque un noir che sembra rifarsi da un lato alla tradizione americana degli anni Quaranta, dall’altro a quella hongkonghese degli anni Ottanta e Novanta, in particolare per quel “tutti contro tutti” che mette classicamente in conflitto poliziotti e criminali. Ma – ed è questo uno dei suoi limiti – perde un po’ della personalità che aveva Fuochi d’artificio in pieno giorno, perché si sovraccarica – più che di intuizioni simboliche – di trovate strabilianti, atte a far sbrilluccicare gli occhi: si veda la scena della danza all’aperto che si trasforma in sparatoria dove a servire da elemento scenico fondamentale sono le scarpe fosforescenti di alcuni poliziotti, la cui presenza scenografica è però tanto evidente da farci intuire da subito che avrà un ruolo, non metaforico, quanto banalmente spettacolare.

Sotto certi aspetti, Il lago delle oche selvatiche è un film sul caos, in cui – sfruttando la tematica classica del criminale braccato dalla legge – i personaggi muoiono senza nemmeno rendersene conto, i discorsi criminali vengono continuamente interrotti da passanti ignari, tutti tradiscono (quasi) tutti e i criminali stessi non riescono – e non possono – mettersi d’accordo tra di loro. Vi è dunque un senso di impotenza e di ineluttabilità della morte ne Il lago delle oche selvatiche, anche se questa non la percepiamo come uno squarcio emotivo quanto come una rodata quotidianità, ormai tanto consueta da farsi quasi danza contemporanea di morte. E in questa danza nel mezzo del caos ha un suo ruolo la geografia: non è, infatti, un caso che il film cominci con due parallele riunioni, quella dei criminali e quella della polizia, in cui a ciascuno dei membri delle rispettive organizzazioni viene affidata una zona della città; una spartizione apparentemente logica e razionale del territorio che viene però presto ribaltata da richieste e rivendicazioni di vario genere che poi sfociano inevitabilmente in rissa sanguinosa e che in seguito condurranno a una esplosione dello spazio, totalmente fuori controllo, intorno al lago del titolo.

Quel che davvero appare di prima mano – e lo appare potentemente – sono le location scelte da Diao Yinan, location che rimandano a una Cina dello squallore esistenziale molto vicino a quanto ci fa vedere nel suo cinema Jia Zhangke: il cortile malfamato e col cemento armato sfatto in cui lavora come restauratrice la moglie del protagonista, i chioschi del cibo melodrammaticamente eccessivi e kitsch nei loro colori primari, gli slarghi pieni di motorini parcheggiati in cui qualche poveraccio si mette a ballare con la musica a tutto volume. Qui vediamo una verità dello sguardo che altrove, in quelle pirotecniche e coreografiche danze di morte, ne Il lago delle oche selvatiche finiscono per mancare. Qui vediamo un occhio impietoso ma accorato del regista nei confronti della contemporaneità del suo paese. Ma, stavolta, è un po’ troppo poco perché la scenografia non può sostituirsi al film, ma deve anzi essere sempre funzionale a un discorso, altrimenti ci si auto-condanna all’estetizzazione.

Info
La scheda di Il lago delle oche selvatiche sul sito del Festival di Cannes 2019.
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