Destino

Evento speciale di chiusura della 34a Settimana Internazionale della Critica, Destino è un cortometraggio di Bonifacio Angius, uno dei suoi ritratti della Sardegna profonda, dove alberga la superstizione, dove sopravvive una cultura di riti pagani che si mescola con la devozione cattolica.

Occhio e malocchio

Mario è disoccupato, convinto di non poter migliorare la sua situazione per essere vittima di un malocchio. Su suggerimento della sorella, si rivolge alla signora Tetta, una guaritrice capace di togliere i malocchi e poi si confessa. Mentre ritorna in chiesa per accendere un cero, la nipotina in carrozzina, che si portava dietro, scompare. [sinossi]

La sfiga non esiste, esistono i malocchi. Ne è convinta la sorella di Mario, protagonista di Destino, il cortometraggio di Bonifacio Angius, da lui stesso interpretato, presentato come evento di chiusura alla 34a Settimana Internazionale della Critica. Il caso o il destino? Da sempre l’uomo ha cercato di dare un nome alle condizioni avverse. Nella cultura popolare della Sardegna ritratta dal film, ma molto frequente nel meridione d’Italia come già insegnava l’antropologo Ernesto de Martino nei suoi studi sul magismo, non esiste quindi il caso, che può per un gioco di probabilità essere avverso confluendo così nel concetto di sfortuna, quanto un determinismo generato dall’azione deliberata di altre persone, come atto ostile, di vendetta per un torto che si pensa di aver subito o per qualsiasi altro motivo. Come una malattia applicata, il malocchio, in questo contesto, è qualcosa di estirpabile da un esperto, da un taumaturgo, dall’equivalente di un medico, o un esorcista, un curatore riconosciuto come tale dalla comunità.

Mario non ha idea di chi possa avergli lanciato il malocchio, crede sia stata un’azione collettiva, lui che si sente emarginato e reputa di avere tutti contro, e nemmeno la santona riesce a identificare l’artefice. Mario è convinto di averlo e basta, istigato in ciò dalla sorella. O comunque di avere sfiga, scaricando su cause esterne o su una congiuntura sfavorevole quello che è un suo fallimento di vita. E il potere terapeutico magico della signora Tetta, la santona, la cui stanza è piena di immagini religiose, e che si fa il segno della croce nel celebrare il rito con il bicchiere – rito che comporta una preghiera da recitare a memoria scritta dietro un’immaginetta di Gesù –, prevede una commistione religiosa, un abbinamento alla pratica religiosa. Si tratta della confessione, che invece comporta il fatto di cercare al nostro interno, nelle nostre azioni, i motivi del nostro disagio, riconoscendo i nostri peccati e così espiandoli. Anche i riti religiosi prevedono comunque atti codificati, come l’accendere il cero, cosa che poi qui darà origine al disastro.

Il quadro che subito Bonifacio Angius mette in scena è quello di una mediocrità, di personaggi marginali o tenuti ai margini dalla società, all’interno di un territorio, insulare, tenuto a sua volta ai margini dallo stato. Il cognato di Mario, Franco, non lo saluta nemmeno quando è a casa loro ospite, e si rifugia alla consolle assorbito dai videogiochi, mangiando un panino. La superstizione e le credenze popolari sopravvivono e convivono con moderni, e tecnologici, passatempo. Mario fa un’allusione a lui, a una non precisata voce su di lui, ma la sorella stronca quell’insinuazione sul nascere. Che sia Franco l’artefice del malocchio? La stessa sorella, superstiziosa, sfrutta l’occasione per sbolognare la bambina, di cui non ha voglia di occuparsi. Mario è un uomo alla deriva, con perennemente una bottiglietta di birra sotto mano. Sente il bisogno di giustificare la presenza, ingombrante, della bambina alla signora Tetta, la guaritrice. «Non fa niente», cosa che di solito si dice dei cani potenzialmente pericolosi.

Quello che fa Bonifacio Angius in Destino è un ritratto di queste persone, di questa tipologia di persone, tenendone sempre alta la dignità. Non ironizza sulla pratica ‘magica’ del rito di togliere il malocchio, cosa che sarebbe stata molto facile. Si tratta di qualcosa che fa parte di una cultura popolare. Soprattutto massima è la dignità per Mario, un fallito, o almeno così si vede, un uomo alla deriva, un asociale che detesta il mondo, che ha pochi peccati veri sulle spalle. Aveva alzato le mani sulla sorella, per esempio, quando lei si era adirata perché lui aveva orinato nel lavandino. Mario è questo, è tutto qui, qualificato nell’indossare una maglietta con il titolo in spagnolo di Il buono, il brutto, il cattivo (“El bueno, el malo y el feo”), Mario è quello che reagisce con stupore alle prescrizioni della signora Tetta, ma ne prende atto. E per gli altri, vedi il cognato, comincia a essere preso in considerazione solo quando l’ha fatta grossa, per loro che comunque non davano l’impressione di fare molta attenzione alla bambina, tanto da affibbiargliela.

Bonifacio Angius gioca il cortometraggio con una regia semplice, con una serie di campi controcampi, e due carrellate a indicare il passaggio di luogo, dalla casa della sorella a quella della signora Tetta e alla chiesa. La forma del campo controcampo si interrompe una prima volta, nel confessionale, con il volto del prete che rimane anonimo, coperto dalla grata. C’è poi quella specie di campo controcampo con la bambina, che lascia poi il controcampo vuoto. Come interpretare la sparizione della piccola? Sicuramente la manifestazione della tendenza pessimistica e autodistruttiva di Mario, che vedeva tutto nero e che sentiva che qualcosa di terribile sarebbe successo. Ma la dinamica dell’evento è volutamente lasciata ambigua. Potrebbe essere sparita per magia come in una nuova Hanging Rock per poi riapparire, oppure, possiamo supporre, che le persone in zona l’abbiano presa in custodia nel brevissimo frangente in cui Mario è andato ad accendere il secondo cero. Rimane il linguaggio del cinema e quel controcampo vuoto che genera angoscia: prima di tutto è sparita dal frame.

Info
La scheda di Destino sul sito della SIC.

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