Il ritratto del Duca

Il ritratto del Duca

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Una singolare storia vera, lo scontro tra popolo e potere virato in commedia, la consueta confezione inglese impreziosita da un cast eccellente – brilla fin troppo facilmente Jim Broadbent, mentre Helen Mirren serve per dare spessore alla moglie lasciata inevitabilmente in secondo piano, tra mugugni e silenzi. Andrebbe tutto benissimo, se non fosse che Il ritratto del Duca è (anche) il disarmante emblema del quasi trentennale stallo di buona parte del cinema anglosassone, con variazioni sul tema a volte più che apprezzabili, a volte rapidamente dimenticabili. Cinema inerte, da pomeriggio domenicale.

No, non ho detto Goya…

Nel 1961, Kempton Bunton, un taxista di sessant’anni, rubò il ritratto del Duca di Wellington di Francisco Goya dalla National Gallery di Londra. Fu il primo (e finora unico) furto nella storia della Gallery. Kempton mandò una richiesta di riscatto asserendo che avrebbe restituito il dipinto a condizione che il governo si impegnasse a favore degli anziani attraverso maggiori investimenti: si era a lungo battuto affinché i pensionati avessero diritto alla televisione gratuita. Ciò che accadde successivamente è leggenda. [sinossi]

Non ci libereremo mai di Full Monty.
Correva l’anno 1997 e correva pure il pubblico, festante nel riempire le sale e nel far deflagrare il fenomeno degli spogliarellisti squattrinati. Tutta colpa di Peter Cattaneo, Robert Carlyle e Tom Wilkinson. Ci mise il suo anche Uberto Pasolini, ma non è questo il punto. Da allora, anno dopo anno, abbiamo assistito al ripetersi di un’impeccabile liturgia cinematografica: grandi attori, contesto storico/sociale, sorrisi e lacrime. La declinazione da box office del cinema loachiano. La commedia sociale british. Perfetta e (in)festante.
Ed è perfetto anche The Duke, in italiano Il ritratto del Duca, diretto dalla vecchia volpe Roger Michell (Notting Hill, A Royal Weekend), totalmente a proprio agio tra ricostruzione storica, dialoghi brillanti e attori di comprovato e smisurato talento. Ecco, il primo degli ingredienti, i grandi nomi: ovviamente Jim Broadbent e Helen Mirren, ma anche una lunga lista di comprimari e caratteristi, dai volti freschi e amabili dei ragazzi fino al più rubicondo e pacioso dei guardiani della National Gallery. Che dire, ad esempio, di Matthew Goode? Gli bastano pochi secondi per delineare l’avvocato difensore Jeremy Hutchinson, per portarlo dalla parte del pubblico, per preparare il terreno alla commozione e al sorriso.

A dire il verso, la Mirren sembra quasi in vacanza, usata per un paio di sequenze e per dare spessore a un personaggio destinato a restare in secondo piano. Qualche mugugno e poco più, in attesa dello slancio romantico. Il mattatore è Broadbent, un Kempton Bunton fisicamente in parte e dall’irresistibile brio. Perché, inutile negarlo, funziona tutto: i costumi, i luoghi, la ricostruzione biografica e storica, le strizzatine d’occhio al pubblico di riferimento – adulto e moderatamente cinéphile. Il ritratto del Duca è un film divertente, lineare, conciliante. Un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa. Può bastare? No, come non bastavano a suo tempo L’erba di Grace o Billy Elliot. Come, a volte, non basta nemmeno il cinema di Loach, il padre serio.

Il limite di gran parte della commedia sociale inglese, così rassicurante e prevedibile, così magistralmente impeccabile, è in fin dei conti la sua forza commerciale. Nazionale e internazionale. Cinema senza increspature, veicolo pacifista di buoni propositi e di rivendicazioni declamate da attori di razza – la Mirren, giova ricordarlo, è cresciuta tra Shakespeare, Ken Russell (Messia selvaggio) e il Tinto Brass di Caligola. Andrebbe tutto benissimo, se non fosse che Il ritratto del Duca è (anche) il disarmante emblema del quasi trentennale stallo di buona parte del cinema anglosassone, con variazioni sul tema a volte più che apprezzabili, a volte rapidamente dimenticabili. Cinema inerte, da pomeriggio domenicale.

Info
La scheda de Il ritratto del Duca sul sito di Venezia 2020.

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