Lo chiamavano Trinità…

Lo chiamavano Trinità…

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Lo chiamavano Trinità… di E.B. Clucher (nome d’arte di Enzo Barboni) avrebbe dovuto essere interpretato da George Eastman e Peter Martell, ma su intuizione di Italo Zingarelli e forte spinta dei due interpreti divenne il primo titolo di grande successo commerciale della coppia formata da Bud Spencer e Terence Hill. Si ritrovano qui tutti i marchi di fabbrica che renderanno famoso il duo, tramutandolo di fatto per un decennio abbondante nel dominatore del botteghino. Un’opera che smitizza lo spaghetti-western sabotandolo dall’interno, ma apre soprattutto nuove strade alla commedia nazionalpopolare. A oltre cinquant’anni dalla sua realizzazione il film torna in sala in versione restaurata grazie alla Cineteca di Bologna.

Trinità e Bambino

Il pistolero Trinità arriva in paese e trova il proprio fratello che fa lo sceriffo. Ma costui è un furfante che ha architettato un piano ai danni del ricco Harrison. Trinità si trova a sventare contemporaneamente i piani del falso sceriffo e di Harrison che opprime una comunità di mormoni, e si innamora di una delle ragazze della setta. [sinossi]
He’s the guy who’s the talk of the town
With the restless gun
Don’t you bother to fool him around
Keeps the varmints on the run, boy
Keeps the varmints on the run
Trinity, canzone d’apertura
“Allora, com’è andata?”
“Mia esposa stava al fiume, señor, a lavare.
Un gringo l’aggredì, e la voleva.
Ho corso in suo aiuto, avevo il coltello.
Quello mi guarda con occhi spalancati, e muore;
nel cadere avrà battuto la testa.
Io gli ho dato solo qualche coltellata”.
Un dialogo di Lo chiamavano Trinità

Solo un paio di mesi fa il pubblico italiano si è trovato di fronte Altrimenti ci arrabbiamo, il remake/sequel del celeberrimo film di Marcello Fondato che nel 1974 venne visto da 11 milioni di spettatori, guadagnando oltre 6 miliardi di lire: una cifra monstre, ma che appare ancora più a siderale distanza se messa a confronto con i centodieci mila euro, centesimo in più centesimo in meno, raggranellato dall’omaggio firmato da Younuts. Sarà interessante vedere cosa succederà in questa calda estate, quando gli esercenti cinematografici potranno programmare nelle loro sale Lo chiamavano Trinità…. Non un rifacimento maldestro o lo stanco tentativo di ammodernamento, no: l’originale. Come reagirà il pubblico del 2022 scoprendo che in una sala della loro città è possibile tornare a vedere sul grande schermo uno dei classici della coppia composta da Bud Spencer e Terence Hill. Di più, il film fondativo per l’intero percorso dei due attori, che come si leggerà tra poco neanche avrebbero dovuto prendere parte alle riprese. Riusciranno Trinità e Bambino, a forza di sganassoni in faccia, a spingere in sala un pubblico sempre più pigro, che magari ricomincia a rispondere agli stimoli hollywoodiani (lo dimostrano gli incassi di Top Gun: Maverick e Jurassic World – Il dominio, e viene da pensare: almeno questo!) ma ancora si dà alla latitanza quando vede sventolare bandiera tricolore. Da gennaio a oggi l’unico titolo italiano presente tra i dieci migliori incassi è Me contro Te il film – Persi nel tempo, che peraltro occupa proprio la decima posizione: difficile invertire la tendenza, anche perché i titoli in programmazione – si pensi alla settimana corrente, e a uscite quali Il giorno più bello di Andrea Zalone, ennesima commedia costruita su un film preesistente, per l’esattezza C’est la vie di Nakache/Toledano – non invitano all’ottimismo in tal senso. Spazio dunque a un grande classico della commedia nazionalpopolare, così amata da far registrare risultati stupefacenti anche nei vari passaggi televisivi, moltissimi nel corso degli anni Ottanta ma andati poi diradandosi. Dopotutto il cinema fatica anche a trovare spazio in televisione, se si escludono i canali dedicati.

Con i se e con i ma la storia non si fa, ma viene lecito chiedersi cosa sarebbe accaduto se nel 1970 Enzo Barboni, vale a dire E.B. Clucher, avesse seguito il proprio istinto mettendo sotto contratto per la sua commedia western George Eastman (vale a dire Luigi Montefiori) e Peter Martell (al secolo Pietro Martellanza): chissà, magari Lo chiamavano Trinità… sarebbe stato in ogni caso un successo clamoroso, o forse sarebbe rientrato in quella vastissima schiera di titoli dell’epoca che ripagarono senza difficoltà chi vi aveva investito denaro ma non smossero un filo d’erba in direzione della Storia della produzione nazionale. Fu l’intuizione del romagnolo Italo Zingarelli, produttore per conto della West Film (nel 1979 dirigerà in prima persona Io sto con gli ippopotami, per sopperire alla drammatica scomparsa prematura di Giuseppe Colizzi), a cambiare completamente le carte in tavola, insieme alla ferrea volontà di Carlo Pedersoli e Mario Girotti – e la scelta dei nomi d’arte influì probabilmente non poco per la loro fama nazionale – di prendere parte al progetto. Nasce così il mito di Bud Spencer e Terence Hill, che per oltre un decennio dominerà letteralmente il box office, al punto da riuscire perfino come prodotto di esportazione (vedere alla voce Germania in tal senso). Solo un anno prima, nel 1969, i due erano tra i pochi a sopravvivere alla mattanza messa in scena da Colizzi ne La collina degli stivali, uno spaghetti-western in piena regola: si allontanavano a cavallo, verso l’onnipresente tramonto, lasciando nella mani della giustizia – pronto per l’impiccagione – Victor Buono, con il cadavere di Lionel Stander ancora fumante. Dodici mesi dopo tutto questo viene rivoluzionato: la pistola è nella fondina, a prendere sabbia, e le dispute si risolvono a pugni e schiaffoni; non si muore, al massimo si finisce tramortiti per le troppe botte in testa; i cattivi agiscono per cinismo, ma i buoni sono quasi sempre disinteressati. È la prima sequenza a sottolineare i forti mutamenti in atto: Trinità pare esanime sulla treggia trainata dal suo cavallo, ma non è un cadavere, si sta solo concedendo una pennichella. Il pistolero non deve neanche andare a cavallo, perché la bestia conosce benissimo da solo la strada. Mentre Annibale Giannarelli gorgheggia sulle note di Trinity di Lally Scott – parte integrante dell’incredibile successo del film, al punto che la riutilizzerà anche Quentin Tarantino nel finale di Django Unchained – le regole dello spaghetti-western vengono una per una disattese. Si tratta di un vero e proprio sabotaggio del genere, più che di una sua parodia: non si sta “prendendo in giro” la gallina dalle uova d’oro del decennio immediatamente precedente, si sta sovvertendone la logica. Anche per questo, quando il cavallo finalmente arriva a destinazione dopo aver attraversato deserti, corsi d’acqua, sassi e rocce – il film fu interamente girato nei dintorni di Roma, dimostrando una capacità di utilizzo delle location che andrebbe studiata con attenzione ancora oggi –, sul tetto della stamberga che funge anche da stazione di cambio in cui Trinità va a rifocillarsi si può vedere una mucca al pascolo.

Zingarelli, Clucher, Spencer, e Hill apriranno sì la strada a un western comico, ma soprattutto costruiranno a partire da Lo chiamavano Trinità… le fondamenta di un inedito approccio alla commedia in quanto tale, lontanissima dal concetto di “commedia all’italiana” ma senza molti paragoni neanche a livello internazionale: il genere viene utilizzato per essere adattato alla morfologia di due attori tra loro complementari, agile e furbetto Hill, corpulento e bonario Spencer. Il loro cinema flirta con il demenziale, ma non perde mai di vista la storia, costruendo su una narrazione magari prevedibile ma forte una infinita serie di scazzottate, di litigi, che diverranno un marchio di fabbrica imitatissimo e inimitabile, un gioco atletico quasi sportivo, una digressione che annulla lo spazio-tempo e riconduce tutto all’agone in sé. Si trovano qui già tutti i punti fermi che di film in film il duo saprà replicare senza mai mostrare segni di evidente stanchezza: i bisticci infiniti tra i protagonisti, che sono sempre alleati più per caso che per volontà; le pantagrueliche mangiate di fagioli (rigorosamente direttamente dalla padella); i bagni sporadici nelle tinozze; la strenua difesa di piccole comunità in pericolo, in questo caso composta da mormoni; il fascino che Hill esercita sulla componente femminile – a cadere ai suoi piedi qui sono le belle mormone Gisela Hahn ed Elena Pedemonte, che quasi finiscono con irretirlo, prima che la scoperta delle fatiche della vita quotidiana nella comunità spingano il giovanotto a darsela a gambe. I due attori non prendono solo parte a un film, ma codificano un modello di commedia che potrà essere rinnovato di volta in volta solo mettendo mano in piccola parte al canovaccio. Un’intuizione produttiva geniale, e che infatti ripagherà in maniera sorprendente Zingarelli. A distanza di oltre cinquant’anni dalla sua realizzazione semmai viene da chiedersi perché nessuno abbia mai provato davvero a studiare i meccanismi del successo della coppia Spencer/Hill: in un sistema produttivo che vive di infinite repliche dei medesimi schemi, o che rubacchia idee dalle nazioni limitrofe, la commedia à la Trinità è rimasta lettera morta, non si è mai tramutata in paradigma. Forse la paura è stata quella di non poter trovare due interpreti altrettanto in grado di completarsi e allo stesso tempo fiutare lo zeitgeist, ma l’impressione è che non sia neanche davvero mai stato fatto un tentativo concreto. E allora, chi può dirlo, non resta che a Lo chiamavano Trinità… nella sua versione restaurata dalla Cineteca di Bologna rinverdire i fasti di se stesso, e magari trovare nuovi adepti per un cinema senza dubbio semplice, ma mai ingenuo (il villain è pur sempre Farley Granger!). E soprattutto slegato dal tempo e dalla logica, come una mucca che pasteggia ad erba sopra un tetto.

Info
Il trailer di Lo chiamavano Trinità…

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