Amsterdam

Amsterdam

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Amsterdam, il decimo lungometraggio diretto da David O. Russell (conteggiando anche Accidental Love, ripudiato dal regista), ha l’ambizione di creare un sottotesto noir per raccontare in realtà quello che passò alla Storia come “business plot”, vale a dire il tentativo di orchestrare un colpo di Stato in chiave fascista nel 1934 per rovesciare il presidente Roosevelt. Russell vorrebbe ritrovare i ritmi di American Hustle – per la parte relativa all’indagine – e Il lato positivo – per le varie storie d’amore – ma fallisce nell’intento. Inutile anche la parata di divi. In Grand Public alla Festa di Roma.

Park Avenue val bene una guerra

Nel 1918, per compiacere i suoceri, Burt Berendsen parte per l’Europa a combattere nella Prima guerra mondiale. In Francia diventa amico del soldato afrodiscendente Harold Woodsman, insieme al quale combatte e viene ferito nell’offensiva della Mosa-Argonne, dove Burt perde un occhio. In convalescenza in infermeria i due conoscono Valerie, newyorchese come loro, di cui Harold si innamora ricambiato. I tre vivono un periodo di totale spensieratezza ad Amsterdam. Quindici anni dopo, nel 1933, Burt – che ha un proprio studio medico – viene invitato a compiere l’autopsia sul cadavere del comandante del suo reggimento in Francia. Con lui c’è anche Harold, diventato avvocato. Ma un pericolo incombe su entrambi… [sinossi]

We’ll always have Paris, dice Rick Blaine a Ilsa Lund Laszlo in una delle più celebri battute di Casablanca (ma in italiano la frase venne tradotta con uno scialbo “E i giorni di Parigi?”), entrata in modo così preponderante nell’immaginario collettivo da giustificare omaggi di ogni forma e dimensione – persino il titolo di un episodio di Star Trek: The Next Generation. In qualche modo a questo riferimento sembra alludere Amsterdam, il film con cui torna sul proscenio internazionale David O. Russell a sette anni di distanza da Joy e da quel Accidental Love che venne disconosciuto per profondi dissidi con la produzione: la capitale dei Paesi Bassi svolge per Burt, Harold, e Valerie il ruolo che aveva Parigi nel classico diretto da Michael Curtiz, vale a dire il luogo della memoria rimasta “pura”, e dunque “inattaccabile”, nonostante il progredire del tempo e il dolore che esso porta con sé. Anche in Amsterdam dopotutto si parte dalla guerra come elemento scatenante della narrazione, perché è durante il primo conflitto mondiale che i tre succitati si conoscono, con Harold e Burt costretti nel letto di un ospedale (Burt ha anche perso l’occhio destro, sostituito poi con una protesi) e Valerie amorevole e pazzoide infermiera che estrae dal corpo dei feriti le schegge di metallo lasciate da bombe, mine, granate, proiettili, per farne opere d’arte concettuali, alla maniera delle giovani avanguardie che stanno prendendo piede in Europa. Come d’abitudine Russell non lesina la carne da cuocere al fuoco, e così questa sua nuova avventura cinematografica cerca di condensare al proprio interno materiale eterogeneo e denso di significato: c’è la riflessione sull’alta borghesia newyorchese, con Park Avenue come epicentro del dominio malevolo sulle classi subalterne; la guerra, e le sue implicazioni internazionali con tanto di servizi segreti e lavoro di intelligence; l’amore interrazziale visto con enorme sospetto, quando non aperto disgusto, sempre dalle classi dominanti; la relazione che intercorre tra il conflitto mondiale e l’insorgere di quelle forze dittatoriali – fascismo e nazismo – che porteranno a un secondo conflitto ad appena vent’anni di distanza; le avanguardie dell’arte; la crisi matrimoniale.

Tanti sono i temi che Amsterdam vorrebbe trattare, e quindi molteplici sono le suggestioni che il film riesce a smuovere, anche suo malgrado. Come troppo spesso riscontrato all’interno della sua filmografia Russell approccia il racconto sfiorando tutto a volo d’angelo, senza entrare in profondità nei dettagli, senza preoccuparsi particolarmente delle psicologie dei suoi personaggi, senza cercare di comprendere fino in fondo le dinamiche relazionali, sociali, politiche che pure tira in ballo, avendo il film un’ambizione sfrenata. Ogni personaggio è in realtà una macchietta, un bozzetto reso il più rotondo possibile che magari può smuovere un sorriso sulle prime battute, ma alla lunga tende a stancare, impossibilitato com’è a stratificarsi, a rendersi credibile agli occhi dello spettatore. Così al di là di qualche divertita citazione attinente alla storia dell’arte, poco arriva di Valerie, la donna amata da Harold, che pure a sua volta oltre a un’evidenza “sociale” (il suo essere povero afrodiscendente in un mondo dominato dalla ricchezza “bianca”) non va. Si assume per buono tutto ciò che la narrazione propone perché si ha la netta impressione che in ogni caso mettendosi a scavare non si caverebbe un ragno dal buco. Ed è davvero un peccato, perché la Storia che davvero Russell va a maneggiare è misconosciuta ma incredibilmente affascinante e ha tanto da dire sull’oggi (il riferimento va al cosiddetto “business plot”, il tentativo di un colpo di Stato fascistoide per rovesciare la presidenza Roosevelt ordito, così pare, dai magnati dell’industria). Eppure anch’essa finisce nel gran calderone del “gioco” di Russell, così attento nella costruzione dell’immagine – la scenografia, i costumi, le luci che rimandano ai noir d’antan – da dimenticare per strada l’immaginario, e il suo senso.

A essere triturati sono poi anche i personaggi principali, i loro desideri, i loro amori. Se John David Washington continua a convincere poco, in particolar modo per una scarsa espressività, dispiace osservare Christian Bale e Margot Robbie dibattersi furiosamente per cercare di evadere dalla gabbia in cui Russell li ha imprigionati. Una gabbia d’immagine, di pura cartolina, che dissangua i loro personaggi e li rende bidimensionali, e quindi completamente inutili quando non direttamente fastidiosi – il ricorso all’ironia a ogni costo del personaggi di Bale è davvero fuori controllo, e non raggiunge mai l’effetto desiderato. Tutto è piano, in Amsterdam, cosicché la Storia perde valore, l’intreccio non propone interesse particolare, e tutte le suggestioni accumulate finiscono per confondersi tra loro, confondendo lo spettatore. Russell vorrebbe ritrovare i ritmi di American Hustle – per la parte relativa all’indagine – e Il lato positivo – per le varie storie d’amore – ma fallisce nell’intento e si ritrova in una terra di nessuno, dove fatica ad albergare anche il cinema. Sotto questo punto di vista la parata di star diventa addirittura deleteria, anche per la totale inefficacia di alcune interpretazioni (su tutti Rami Malek e Ana Taylor-Joy, ma anche Zoe Saldana). David O. Russell torna alla regia confermando tutti i limiti del suo cinema, ambizioso ma spesso soprattutto decorativo.

Info
Amsterdam, il trailer.

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