I tre moschettieri – D’Artagnan

I tre moschettieri – D’Artagnan

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Con I tre moschettieri – D’Artagnan Martin Bourboulon riporta in auge l’avventura di cappa e spada, ben maneggiando l’aggettivo “popolare”: la prima parte delle avventure di Athos, Porthos, Aramis, e D’Artagnan al servizio del re di Francia si sviluppa in un tourbillon di situazioni, tra intrighi di palazzo e fiammeggianti innamoramenti. Cinema d’altri tempi, che viene naturale “difendere” proprio perché all’apparenza fuori dai codici del contemporaneo.

L’apprendista moschettiere

Dal Louvre a Buckingham Palace, in un regno diviso dalle guerre di religione e minacciato dall’invasione dell’Inghilterra, un manipolo di uomini e donne incrocia le spade e lega il proprio destino a quello della Francia. [sinossi]

Nel tredicesimo paragrafo del sedicesimo “Quaderno” redatto da Antonio Gramsci durante l’abominevole prigionia fascista il grande filosofo marxiano scrive, occupandosi dell’Origine popolaresca del «superuomo»:«Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno domandarsi e ricercare se le sue concezioni «superumane», contro la morale convenzionale, ecc. ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta cultura», oppure abbiano origini molto più modeste, siano, per esempio, connesse con la letteratura di appendice. (E lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il così detto romanzo «giallo»), In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente «superumanità» nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zaratustra ma Il conte di Montecristo di A Dumas. Il tipo più compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in altri romanzi dello stesso autore, numerose repliche: esso è da identificare, per esempio, nell’Athos dei Tre Moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse anche in altri personaggi». Dumas dunque come base portante – nel senso di accessibile a chiunque, senza distinzione di sorta sullo strato sociale “occupato” – del superomismo nietzschiano, in una certa qual misura. Con queste poche e illuminanti righe ci si può avvicinare a I tre moschettieri – D’Artagnan ampliando la visuale dello sguardo ben oltre i limiti già di suo fantasmagorici dell’adattamento firmato da Martin Bourboulon. Nel suo vagheggiamento d’antan, nel suo rifiuto di buona parte dei codici della rappresentatività contemporanea, il primo dei capitoli attorno ai quali si muoverà la nuova riduzione per il grande schermo del classico di Dumas padre sembra assumere i contorni dell’atto di rivendicazione di un immaginario che non si sieda prono accanto al tonitruante incedere del cinecomic d’oltreoceano ma sappia rintracciare i germi della propria modernità nel racconto d’appendice.

Il ritorno in scena del guascone D’Artagnan e con lui dei fidi Athos, Porthos, e Aramis non serve solo a sottolineare la potenza produttiva francese, in grado contrariamente alla realtà italiana di allestire un progetto dal costo mostruoso di ben settanta milioni di euro, ma anche a rinverdire i fasti del feuilletton, con i suoi duelli emotivi e concreti, con le storie d’amore fiammeggianti, con i personaggi messi di spalle di fronte a dirupi con l’unica scelta se perire trapassati da una spada o fracassandosi il corpo sugli scogli sottostanti. Cinema d’altri tempi, per un racconto a suo modo immortale cui la settima arte torna con una certa frequenza – anche se stavolta, rimanendo alle produzioni di Parigi e dintorni, si mancava l’appuntamento da un trentennio o poco meno, dai tempi di Bertrand Tavernier – e che contiene al suo interno buona parte degli argomenti dialettici propri della retorica del popolare. Bourboulon, cineasta di suo non certo indimenticabile, sa come affidare alla sana protervia di D’Artagnan il vero scettro del potere, quello che un re troppo arrendevole – qui interpretato da Louis Garrel: ma dopotutto il cast è un gioco tra sole stelle del cinema d’oltralpe, a ribadire una volta di più la natura anti-Hollywood dell’ambizioso progetto – non sa gestire con cura. Così I tre moschettieri – D’Artagnan, in attesa della seconda parte incentrata invece almeno nel titolo sulla figura di Milady, viaggia di combattimento in combattimento con uno spirito disincantato e convincente, certo poco attento alla ricostruzione d’epoca e anche sospinto verso una ridefinizione di alcuni passaggi che la morale corrente potrebbe trovare “sconvenienti”. Ma si tratta appunto di un esercizio commerciale e soprattutto popolare, che ha l’unico reale compito di convincere una popolazione poco avvezza all’ambientazione seicentesca di potervi rintracciare all’interno i prodromi della realtà che vive quotidianamente.

Quel che ne viene fuori non è una messa a fuoco della Francia da pochi decenni uscita dalla “Guerra dei tre Enrichi”, ultimo balzello da pagare alle cosiddette “guerre di religione” che sconquassarono la nazione, e neanche una riflessione sul potere, sulla fedeltà al re e via discorrendo, ma una commedia di cappa e spada tanto fragile nella struttura narrativa quanto appassionante nella sua cocciuta fiducia nell’immagine in movimento, nell’emotività dell’occhio, nella eterna modernità di temi quali l’amicizia fraterna, e i sobbalzi del cuore in grado di far superare ogni ostacolo. Forse anche in modo inconsapevole Bourboulon dona nuova luce a un aspetto del cinema che si è via via dimenticato, in particolar modo in Europa, e offre la prospettiva di un nuovo modo di affrontare il racconto “per tutti”, forse non necessariamente migliore ma almeno non consunto, non opacizzatosi per eccessivo utilizzo. Merito in parte anche dell’eccellente cast scelto per la bisogna, dominato da una luciferina e irresistibile Eva Green, allo stesso tempo desiderata e desiderante (potere), immutabile specchio dei tempi.

Info
Il trailer di I tre moschettieri – D’Artagnan.

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