Air – La storia del grande salto

Air – La storia del grande salto

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Con Air – La storia del grande salto, Ben Affleck dirige un dramma sportivo che, mentre tiene lo sport (e il suo principale rappresentante) sempre fuori campo, riproduce con vigore e passione l’epica del genere, raccontando al contempo un preciso periodo della storia americana nella sua complessità.

Il salto e la scossa

Nel 1984, la Nike decide di ampliare il suo business lanciando una linea di calzature dedicate al basket: per questo, l’azienda si mette alla ricerca di un testimonial forte che la sponsorizzi. Il responsabile delle vendite, Sonny Vaccaro, ha un’idea apparentemente folle: cercare di stringere un accordo con l’astro nascente Michael Jordan, tentando di superare la concorrenza dei più quotati rivali della Adidas, che con Jordan hanno praticamente già un accordo in tasca. [sinossi]

Tornato dietro alla macchina da presa a sette anni dal precedente La legge della notte, Ben Affleck si trova con questo Air – La storia del grande salto ad affrontare una scommessa tutt’altro che facile. Una scommessa, quella dell’attore-regista, che si traduce in una doppia sfida: da una parte quella di realizzare un film sportivo, che si attenga sostanzialmente ai codici del genere e al suo svolgimento, senza però mostrare praticamente mai un match dello sport in questione; dall’altra, quella di raccontare un’icona che ha segnato a fondo l’immaginario di un preciso decennio (gli anni ‘80 americani, con lo sviluppo, nel periodo, dell’industria dell’abbigliamento sportivo) lasciandone quasi sempre fuori campo il corpo. Proprio per questo, questo ritorno alla regia di Affleck non va assolutamente sottovalutato, né il suo risultato va liquidato come un mero blockbuster concepito in modo da sfruttare l’onda lunga dell’amarcord per gli anni ‘80: ciò in primis perché Air – La storia del grande salto è in realtà tutt’altro che un film nostalgico (il montaggio iniziale, un susseguirsi di eventi e immagini emblematiche dell’anno in cui il film è ambientato, è l’unica concessione in tal senso); ma soprattutto perché il film riesce a fotografare con precisione un’epoca e un preciso contesto culturale, raccontando al contempo quella variante progressista dell’american dream per cui il Ben Affleck regista non ha mai nascosto la sua fascinazione. Una fascinazione che qui trova forse il suo risultato più compiuto.

La contestualizzazione operata dall’intro di Air – La storia del grande salto (con quei titoli di testa integrali ad accompagnare le immagini, dal sapore così retro) serve più che altro a evidenziare il doppio livello su cui il film lavora: fuori, la luminosa patina rappresentata dell’edonismo e dell’ottimismo forzati tipici dell’era reaganiana; una patina atta a coprire, appena sotto, la sostanza di un capitalismo sempre più immobile e giocato su posizioni di rendita. Un capitalismo sostanzialmente cristallizzato nei suoi equilibri e privo di qualsiasi spinta creativa, espressione di un immobilismo che contraddice in tutto quella tradizione orgogliosamente liberal (non priva di una componente individualista e un po’ anarchica) che il cinema dell’Affleck-regista ha sempre incarnato. Non è un caso l’inserimento, nella soundtrack (tutta di altissimo livello), di un brano come Born in the USA di Bruce Springsteen, prima citato dal personaggio interpretato da Jason Bateman, e poi piazzato nell’ultima sequenza: il personaggio rivela, nella scena in questione, di aver sempre cantato quel potente refrain cogliendone il fiero senso di appartenenza, ma di essersi solo successivamente soffermato sull’amarezza e la disperazione del testo, racconto della vita di un reduce dal Vietnam che non riesce a riambientarsi.

Il pezzo di Springsteen, in fondo, è la perfetta espressione di un decennio più complesso e contraddittorio di come non venga normalmente rappresentato, le cui espressioni apparentemente più “istituzionali” covavano al suo stesso interno forze (magari mimetizzate) capaci di dare all’establishment quella scossa di cui c’era bisogno. La stessa scossa che il Sonny Vaccaro interpretato da Matt Damon darà all’industria delle calzature sportive – e di conseguenza allo stesso mondo del basket, e a tutto l’immaginario che lo accompagna – con la partnership istituita con Michael Jordan, e la creazione della linea Air Nike. Tutta la prima parte del film, in questo senso, evidenzia la “follia” visionaria dell’impresa tentata da Vaccaro, l’esaltazione del rischio individuale che evoca echi delle imprese dei pionieri, contrapposti al freddo calcolo del capitalismo esclusivamente contabile, del rifugio nei numeri, di una sicurezza che diventa stagnazione. Il rischio (non) calcolato, insomma, stimolato dal gut feeling, ovvero da quel sentore al confine col sovrannaturale che porta il personaggio a tentare un’impresa al di fuori di ogni ragionevolezza. Un’impresa che Vaccaro mette in atto violando anche le regole della prassi e del buonsenso, entrando direttamente in (fruttuoso) contatto con la madre di Jordan, impersonata in modo perfetto da Viola Davis. Un contatto che si traduce subito in empatia e comunanza di intenti, ponendo la base per l’esito felice che verrà.

Molta critica, oltreoceano e non solo, ha paragonato la sceneggiatura firmata da Alex Convery (inserita nella black list del 2021) a quelle di Aaron Sorkin: un paragone non peregrino, a nostro avviso, in quanto in Air – La storia del grande salto i dialoghi dettano più che mai il ritmo del film, emergendo come l’elemento centrale della costruzione drammatica e segnando le principali svolte narrative. Dialoghi che fanno inoltre evolvere in modo credibile e preciso i personaggi – che vedono al centro i già citati Damon e Davis – e che sostanziano, nell’ultima parte, un climax emotivamente forte capace di suggellare al meglio la singolare “epica” del film. Un’epica incorniciata da una regia sobria e dal taglio classico, che mette al bando qualsiasi virtuosismo e si lascia guidare dagli ottimi protagonisti, e dalla solidità di uno script concepito in modo attento e senza sbavature. Una costruzione in cui, comunque, non manca la componente (auto)ironica, quella attraverso cui il mito, ridendo di se stesso, torna umano e riafferma le sue caratteristiche: l’esilarante scontro telefonico tra il protagonista e il procuratore interpretato da Chris Messina esemplifica alla perfezione questa componente della storia. Quando il mito, incarnato in un eroe visionario, riesce a ridere di se stesso, torna in fondo alla sua natura umana; un ritorno che tuttavia gli permette di riconnettersi col vissuto di tanti individui, riaffermandosi nella sua statura. Una complessità che il film di Ben Affleck esprime in modo perfetto.

Info
Il trailer di Air – La storia del grande salto.

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