Racconto di due stagioni

Racconto di due stagioni

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Nuri Bilge Ceylan torna in concorso al Festival di Cannes con About Dry Grasses (Racconto di due stagioni), un film nel quale tornano molte delle suggestioni più forti del cinema del regista turco, a partire dalla crisi dell’intellettuale fino alla necessità dell’utopia. Potente, e di grande spessore filosofico e umano.

Un film parlato

Samet da sette anni insegna arte nella scuola di un piccolo e isolato villaggio dell’Anatolia centrale e divide la casa con un giovane professore come lui, Kenan. Disincantato e insoddisfatto, Samet sente di avere un rapporto di grande complicità con una sua allieva pre-adolescente, Sevim, ma proprio per questo viene convocato, assieme al suo coinquilino, al provveditorato locale. [sinossi]

Alla fine dei 197 minuti di About Dry Grasses (Racconto di due stagioni) si ha la netta impressione di aver assistito a un’opera dalla drammaturgia perfetta e a qualcosa di raro, prezioso: un romanzo di grande respiro, un testo stratificatissimo scritto da Nuri Bilge Ceylan assieme a sua moglie (e sua consueta collaboratrice) Ebru Ceylan, e allo sceneggiatore Akin Aksu ossia lo stesso “trio” che aveva firmato anche il precedente magnifico lavoro del regista turco, L’albero dei frutti selvatici (2018). La sensazione si conferma ripensando alla struttura narrativa del film in Concorso a Cannes 76, organica e sofisticata, alla precisione dei dialoghi, tutti puntuali, ficcanti, essenziali, verosimili, cui si aggiunge – anzi ne è la risultante – la profondità psicologica dei protagonisti assieme alla capacità di raccontare minuziosamente qualunque personaggio si affacci sulla scena anche solo due minuti grazie a un gesto, a una battuta, a una reazione. Racconto di due stagioni è un’opera drammaturgicamente imponente come e più di altri lavori di Ceylan. Ma poi, alla fine delle intense, appassionanti quindi scorrevoli tre ore, torna anche alla mente la qualità altissima della regia di Racconto di due stagioni che si apre in campo lungo, con un’inquadratura in cui il cielo e la terra sono ugualmente bianchi per una tormenta di neve e i loro confini indistinguibili, per proseguire tenendosi spesso a distanza dai personaggi, spesso con fissità nella ripresa, e poi divenire lentamente sguardo palpabile, sempre più mobile, dialettico, arrivando a sfondare la quarta parete e terminando simbolicamente su dettagli di erbe selvatiche, nella terra durante l’estate, stagione calda ma breve nel villaggio dell’Anatolia centro/orientale in cui è ambientato questo grande film.

Racconto di due stagioni racconta di Samet (Deniz Celiloglu), professore sui quarant’anni che da sette vive e insegna arte in un istituto comprensivo di un paesino davvero sperduto in una provincia con una forte presenza curda. L’uomo, che non è sposato e non ha alcuna voglia di “sistemarsi”, vive con il coetaneo Kenan (Musab Ekici), anche lui professore nella stessa scuola. Sono due le vicende principali: la prima costruisce, attorno al rapporto complice tra Samet e una sua allieva pre-adolescente Sevim (Ece Bagci), il conflitto principale del film poiché la ragazzina e una sua amica “denunciano” l’insegnante, e anche il suo coinquilino Kenan, dicendo al preside che i due hanno avuto un comportamento inadeguato e ambiguo nei loro confronti. La cosa di per sé non porta a niente, venendo smentita da altri alunni, ma i rapporti tra Samet e Sevim dapprima esclusivi e speciali cambiano drasticamente generando un vuoto nel protagonista. La seconda vicenda portante, che riflette l’altra, è l’ingresso nella vita dei due uomini di un’insegnante di inglese emancipata e militante, Nuray (Merve Dizdar), che ha vissuto a Istanbul e Ankara e ora, dopo aver perso una gamba in un attentato nella capitale turca, è tornata in quel luogo deprivato per vivere con la sua famiglia. È Samet a cercare e conoscere la bella Nuray, a suo dire per presentarla Kenan che è in cerca di moglie, ma alla fine le cose non saranno per niente lineari. Avvinghiate a queste due tracce ci sono poi affluenti laterali, nessuno dei quali è irrilevante né ozioso, ma di certo i protagonisti sono Samet, che è il punto di vista del film fin dall’incipit, e Nuray, cui si aggiungono come “spalla” Kenan e come soggetto/oggetto di speranza, utopia, sogno, seduzione, la giovane Sevim. Come negli ultimi lavori di Ceylan, al centro del racconto c’è poi la classe intellettuale di sinistra turca (sia nel già citato L’albero dei frutti selvatici che nella Palma d’Oro 2014 Il regno d’inverno) incarnata da una donna laica che è stata politicamente attiva (ma ora è mutilata) ossia Nuray ma più che mai dall’individualista, disincantato Samet. Che, come i protagonisti dei due precedenti film del regista, risulta spesso insopportabile: superbo, manipolatorio, bugiardo con gli altri e sempre ben presente a se stesso, Samet è l’epitome della sfiducia e dell’impossibilità di riconoscersi nel collettivo e non solo rispetto alla tradizione religiosa o culturale del Paese, ormai in verità alle spalle per quasi tutti i personaggi, ma anche rispetto alle ideologie quanto alle “battaglie” del mondo contemporaneo. In questo senso l’ambiguo rapporto con Sevim è gestito da Ceylan in maniera eccelsa: Racconto di due stagioni si confronta infatti sia con i nodi filosofici del moderno in maniera quasi “dostoevskjana” (il conflitto tra un individuo che non può credere veramente a niente e l’ambito etico-politico) che con alcuni temi squisitamente contemporanei, come le molestie e il ruolo della donna ad esempio, dicendoci tra l’altro che i cambiamenti nelle sensibilità sono ben presenti anche in un isolato centro della Turchia. L’appropriatezza nella relazione con un’alunna, cui Ceylan dona una sublime ambivalenza, diventa occasione del dibattere in una serie di scene che costituiscono, esse stesse, una riflessione sul prendere parte, sul parlare e confrontarsi o dividere il mondo in bianco e nero, sull’abbracciare un’idea o analizzarla. Essere intimamente riflessivi e schierarsi è, per Ceylan, un paradosso, una menzogna senza via d’uscita. Attorno alle relazioni tra i tre caratteri principali si sviluppano ulteriormente la disillusione circa la possibilità dell’atto politico e le tante contraddizioni personali che non possono che ingigantirsi in una società che, invece, chiede sempre più di prendere posizioni nette. La magnifica sequenza a casa di Nuray è in questo senso l’espressione più palese dell’operazione messa in atto, per tutto il film, da Ceylan: la donna e Samet si confrontano schiettamente sulle rispettive prospettive, assai lontane, circa il senso dell’agire nella società ed è proprio in questa sequenza che Ceylan porta il suo personaggio fuori dalla scena. Qui a un certo punto Samet apre una porta che lo conduce fuori dal film stesso, dietro le quinte, e dopo essersi riflesso allo specchio torna subito nel salotto di Nuray. Il regista mostra esteriormente quel che il personaggio – che ai suoi allievi in una scena dà un tema proprio sulla prospettiva – fa continuamente: palesando, in un gioco tra realtà e finzione filmica, il movimento psicologico del protagonista, Ceylan ci fa vedere il lavorio continuo dell’autorappresentazione che è rimasto l’unico campo d’azione di questo intellettuale feroce ma impossibilitato a tutto, tristemente nel vero quanto inabile a trovare nell’azione collettiva una forma autentica per la propria intimità brutale ma ricchissima. L’incapacità di essere parte di alcunché è il movimento che sposta sempre altrove l’esito positivo anche della propria stessa esistenza e, su questo, è Nuray a risultare dirimente per Samet, uno che si è laureato in storia dell’arte ma ha smesso di disegnare (non riuscendo a ritenere compiuto neppure quell’atto), ma che invece fa fotografie forse per lui più vicine alla realtà e forse meno bisognose di scelte, da parte sua. Nuray invece disegna, Nuray parla, Nuray lo inchioda e lo mette a nudo: il protagonista, nei suoi travestimenti ben consapevoli, mente in fondo anche a se stesso e sono le due donne a riflettere, diversamente, l’autoindulgenza di Samet. I due coinquilini, del resto, non parlano. I due uomini, semplicemente, non sarebbero in grado di elaborarsi. La donna è l’unico veicolo se non di verità di disvelamento e ricerca. Mentre Nuray, adulta e intelligentissima, capisce tutto e non può essere “presa in giro”, il ruolo rivestito da Sevim è forse il più importante di tutti, di sicuro il più poetico e tragico. La questione tra lei e il suo insegnante non ha molto a che fare con Humbert Humbert e Lolita (o forse sì, almeno stando a una lettura non superficiale di Lolita) quanto con l’impossibilità di Samet anche di non coltivare affatto una forma di utopia. Incastrato nel proprio individualismo, che non gli permette un’azione decifrabile nel corpo sociale, Samet ha trovato la propria via di fuga, la propria speranza di futuro. Ma, appunto, la giovinezza di Sevim non è che un desiderio di avvenire, di cambiamento utopico addossato sopra una ragazzina che non sa, non può, capire. Il finale su di lei, un’elegia di immagini vagheggiate con le parole di Samet fuori campo in una confessione struggente, è magnifico. Così come è fondamentale anche la “chiusura” dell’arco narrativo che coinvolge i tre personaggi principali, divenuti infine davvero amici, i quali si recano in uno dei siti archeologici più antichi della Turchia, Nemrut Dağı: nella persistenza monumentale del tempo, il terreno che porta alla sommità della collina è coperto di erba secca che la breve e caldissima estate fa ardere prima dei mesi invernali. Resta poco per questo umano singolare, in un presente che non può consentire una scelta ma in cui ogni gesto è una decisione: la presa di coscienza di questa posizione aporetica rende Samet più empatico, capace finalmente di compiere un passo.

La neve è l’elemento che copre il paesaggio per quasi tutto questo film parlato in cui la regia è trepidante e dettagliata quanto i dialoghi: le persistenti immagini del padre della patria Atatürk su moltissime pareti in una scena diventano un primo piano che inghiotte lo sguardo di Samet, le distanze tra i personaggi sono sempre commisurate al valore di verità che le persone si scambiano tra loro, il lirismo che chiude le riflessioni sulla giovane alunna è un poema sulla vita che scorre e sul sogno di afferrarla, le dissolvenze che portano dal gelo all’estate segnalano una rinnovata autocoscienza dopo un percorso fittissimo di parole mai prive di consistenza. I volti e i gesti allusivi, le omissioni visive e i particolari negli ambienti, l’illuminazione della scena (fin dal primo interno a casa di Samet e Kenan), le fotografie scattate dal protagonista che cerca di intrappolare una forma di verità, ogni dettaglio concorre a rendere Racconto di due stagioni un grande film esistenzialista e politico sul nostro presente e sulla transitorietà delle forme, chiamate a essere qualcosa in un mondo in cui il valore dell’agire collettivo sfugge invece incessantemente.

Info
Racconto di due stagioni sul sito del Festival di Cannes.

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