Perfect Days

Perfect Days

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Dopo aver portato sulla Croisette fuori concorso il documentario su Anselm Kiefer, Wim Wenders “raddoppia” in competizione con Perfect Days, film di finzione girato a Tokyo. Nel mettere in scena la routine quotidiana di un uomo che rifiuta la tecnologia moderna il regista tedesco dichiara il suo personale punto di vista sullo “stato delle cose”, riuscendo anche a commuovere.

Wim Wenders Monogatari

Alcuni giorni nella vita di Hirayama, un uomo tranquillo attorno alla sessantina che per lavoro pulisce i bagni pubblici di Tokyo, ama leggere, ascoltare musica rock anni ’70-’80 e scattare foto con la “vecchia” e desueta pellicola… [sinossi]

Dopo Lo stato delle cose (Leone d’Oro 1982) e mentre lavorava alla Palma d’Oro Paris, Texas (1984), Wim Wenders nel 1983 va in Giappone chiedendosi quali tracce siano ancora percepibili del nitore immortalato da un regista irreplicabile, Yasujirō Ozu (1903-1963): viene così realizzato il documentario Tokyo-Ga (uscito nel 1985) in cui il cineasta tedesco incontra anche l’amico Werner Herzog sulla Tokyo Tower e i due parlano della (im)possibilità dell’immagine pura. Per Herzog, reduce di Fitzcarraldo (1982), nell’ecosistema cinematografico dei primi anni ’80 l’autenticità è nel gesto, nell’atto performativo, mentre Wenders non ha risposte chiare da fornire e per tutto il film guarda a Ozu come un cineasta irraggiungibile, qualcuno che – come dice un personaggio del film in Concorso a Cannes 2023, Perfect Days, riferendosi però alla scrittrice nipponica Aya Kōda – “usa le nostre stesse parole, ma lo fa in modo differente”. Il mistero (e il tormento) della semplicità porta Wenders, circa quarant’anni dopo, a tornare a Tokyo per un film essenziale e rituale e si può dire che Perfect Days chiuda in qualche misura l’interrogativo aperto dal cineasta tanto tempo addietro. Il regista mette in scena undici giorni consecutivi – il film termina la mattina del dodicesimo giorno – nella vita di Hirayama (il sempre ottimo Kōji Yakusho), un uomo attorno alla sessantina che per lavoro pulisce le toilette pubbliche della megalopoli, gestite dalla municipalità. Hirayama ogni mattina apre gli occhi, mette in ordine il suo futon, si lava i denti in cucina, si spunta i baffi, si rade la barba, si mette la divisa da lavoro, prende la macchina fotografica analogica che ripone nel taschino, porta con sé tutti i prodotti detergenti per i bagni pubblici, prende un caffè o una bibita alla macchinetta fuori dalla sua casetta bassa dagli interni sobri e perfetti che raccontano già di tempi andati, sale sul suo furgoncino e, ascoltando The House of the Rising Sun degli Animals (o Lou Reed o Patti Smith o Van Morrison o i Kinks) rigorosamente in audiocassetta, va verso la prima toilette da rendere presentabile per la collettività cui appartiene. Durante la sua giornata scandita da queste ripetizioni tendenzialmente non accade granché: dopo il lavoro Hirayama ama inforcare la bicicletta, rilassarsi con un bel bagno termale, talvolta cenare nel chiosco di un mercato coperto di quartiere, talvolta nel ristorante che predilige e della cui gestrice è un po’ invaghito. Quasi ogni giorno scatta qualche fotografia alla natura, coltiva piante e prima di dormire legge. Dice la prima rapida battuta dopo 35 minuti di film, questo protagonista che parla pochissimo e interagisce con il prossimo sempre motivatamente: i personaggi “secondari” si affacciano nella sua vita portando tutti una traccia emotiva, anche quando non si vedono come il giocatore di “Tris” che lascia un biglietto in una toilette e con cui Hirayama termina a distanza una partita. In queste undici giornate la vita non cambierà e l’operazione di Wenders in Perfect Days è proprio quella di ridurre al minimo ogni sovrastruttura del filmico, a partire dall’intreccio in cui mancano “grandi eventi”, perseguendo la continuità del tempo e raccontando con rapide e suggestive immagini in bianco e nero l’attività onirica del protagonista che a volte sogna qualcosa di ciò che gli accaduto quel giorno e a volte no, ma sempre le amate fronde degli alberi.

Il protagonista di Perfect Days è, a modo suo, un angelo della città come lo era Bruno Ganz ne Il cielo sopra Berlino (1987), una presenza che con la sua gentilezza aiuta le persone, grazie alla sua empatia riesce a non arrabbiarsi in situazioni in cui ne avrebbe motivo, uno ancora in grado di imbarazzarsi di fronte a un fraintendimento, di emozionarsi per un contatto umano autentico, che riesce a essere responsabile nell’imprevisto, ma anche molto risoluto e duro se serve: un uomo retto che apprezza la vita nelle sue sfumature anche tristi o addirittura tragiche, profondamente grato perché ogni giorno “it’s a new dawn, it’s a new day, it’s a new life for me and I’m feeling good” (“è una nuova alba, è un nuovo giorno, è una nuova vita per me e mi sento bene”) come canta Nina Simone nella canzone che chiude il film su un lungo primo piano di Kōji Yakusho che passa dalla commozione al riso, esprimendo l’intrico inafferrabile dell’esistenza. Hirayama ha “costruito” la propria ritualità lasciandosi però alle spalle qualcosa (come si evince nella scena con la sorella) e definendosi tramite un tempo “morto”: di fronte alla nipote che gli parla di Spotify, lui le chiede dove si trovi questo negozio, mentre nessuno dei giovani che salgono sul suo furgone ha mai visto una cassetta musicale e nessuno sa inserirla nel mangianastri. Hirayama fotografa gli alberi usando la pellicola, nella sua casa (in cui è assente il computer) cataloga ciò che gli interessa conservare scrivendo a mano e la sua vasta libreria è ordinata con metodo e pazienza. La digitalizzazione non è mai entrata nella sua esistenza e se pensiamo a quanto dice Wim Wenders nel documentario Chambre 999, presentato sempre a Cannes 76, ossia che l’ecosistema del digitale per lui è la morte della società, del cinema, della politica, è evidente che il regista si riconosca (o si voglia riconoscere) nel suo Hirayama, un uomo che non è e non vuole essere “aggiornato” circa il presente, che ha delimitato il proprio confine percettivo nell’analogico e nel periodo della grande, vera, musica rock. Della grande vitalità. Wim Wenders sembra affermare che, al di là di tutto, lui ha le stesse radici del protagonista, in fondo mai mutate. O che vorrebbe fosse così. Il paradosso di Perfect Days, e forse di tantissimo cinema di Wenders (che a Cannes porta anche un documentario in 3D, Anselm, un gesto tecnico quasi opposto al suo film in Concorso), è che il vagheggiamento della purezza non può intimamente appartenere a un regista che fin dai suoi esordi ha sempre ragionato sul dispositivo cinematografico: Wenders è un autore squisitamente contemporaneo non “abilitato” per epoca e vocazione ad avere a che fare direttamente con Ozu o con la “semplicità” del racconto. Wenders in Perfect Days raggiunge momenti di grande intensità emotiva attraverso una manovra di purificazione in realtà impossibile fino in fondo, togliendosi di dosso ciò da cui sente la necessità di emendarsi ma che è sempre percepibile sotto la superficie. Perfect Days è il tentativo, a tratti riuscito, di raccontare una vita in essenza eppure non ha niente di immediato: questa torsione rende il film un’operazione di grande interesse quanto ineluttabilmente ragionata. Se in maniera superficiale il film può essere apparentato, per rimanere ai titoli del Concorso cannense, con Fallen Leaves di Aki Kaurismäki, altro film semplice e che guarda al passato del cinema, va rilevato quanto il regista finlandese sia sempre rimasto fedele al proprio stile dalle traiettorie pulite, surrealmente nitide, mentre la ricerca decennale di Wenders parte da tutt’altre premesse e continua inesausta a cercare un gesto che il cineasta agogna come un desiderio irraggiungibile.

Se si sommano due ombre una sull’altra, il “nero” che producono è più scuro o il colore di due ombre è lo stesso di quello prodotto da una sola? È la domanda che si pongono, verso la fine del film, Hirayama e un uomo che ha appena conosciuto: il protagonista vorrebbe che ci fossero sfumature, ma deve ammettere che un’ombra è sempre un’ombra anche quando è stratificata. Perfect Days è un’ombra e non può che esserlo: Wim Wenders si muove da tanti anni nella consapevolezza dell’impossibilità di un atto primigenio perseguendo però nella volontà di “guardare” come fosse la prima volta (Una volta si intitolava il libro fotografico di Wenders, uscito nel 1993, composto da centinaia di immagini scattate tra gli anni ’70 e ’80). Il regista è Hirayama che sogna probabilmente in pellicola e nel formato 4:3 in cui è girato questo film agrodolce sull’accettazione della vita che è costruzione complessa e il cui raggiungimento si paga a caro prezzo (l’esistenza di Hirayama, di cui continueremo a ignorare quasi tutto, è stata però chiaramente segnata da molti eventi dirimenti). È riuscito, il cineasta tedesco, a pervenire alla forma innocente e pregnante? O forse, una volta perduta, l’innocenza non può tornare più e l’artificio non si può nascondere? Sta allo spettatore rispondere e cosa significhi, veramente, lo scorrere di questi “giorni perfetti” perché consueti e senza grandi colpi di scena. Ma è interessante annotare che, se nel 1983, i due colleghi Wender e Herzog si trovavano a Tokyo a parlare di cinema, di recente entrambi sono andati in Giappone a realizzare due film: Family Romance, LLC (2019), l’ultimo lungometraggio non documentario del regista di Aguirre, è anch’esso ambientato in Giappone, ma parla di finzione, anzi di una uber-finzione che ruota attorno a una “famiglia”. Due film completamente diversi che dicono molto di due registi che hanno perseguito infatti e da sempre strade assai differenti. Tokyo, qui immortalata in magnifiche inquadrature sottolineate spesso dal rock che percorre l’opera assieme al furgoncino del protagonista, per Wenders è ancora il luogo della ricerca del rito e del puro. Wenders in Perfect Days esprime il sentimento dell’autocoscienza (Hirayama è un personaggio chiaro a se stesso, ma l’impressione è che lo sia anche il regista) realizzando un lavoro all’apparenza semplice e dunque studiatissimo: in questa aporia dichiarata, film non è girato, come si potrebbe presupporre e dovrebbe essere, in pellicola, mentre il suo protagonista ama il rock occidentale e legge Faulkner e la gestrice del ristorante canterà poi in giapponese la canzone degli Animals che apre la prima giornata. Capace in un colpo solo di portare a Cannes un documentario in 3D e il sogno dell’estrema immediatezza, Wenders denuncia il proprio “profondo desiderio degli dei” dimostrandone definitivamente l’impossibilità e al tempo stesso la necessità utopica. Non torneremo mai dove siamo già stati, l’origine non ci appartiene ma, come dice Hirayama, “il mondo contiene molti mondi e alcuni sono connessi tra loro”. In questo tentativo di connessione con uno sguardo che non potrà mai più vedere la luce replicandosi Perfect Days risulta in effetti molto commovente.

Info
Perfect Days sul sito del Festival di Cannes.

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