Foglie al vento

Foglie al vento

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Aki Kaurismäki festeggia i quarant’anni di carriera e torna al cinema con Kuolleet lehdet (Fallen Leaves, Foglie al vento in Italia), ragionando sulla classe operaia finlandese a oltre trent’anni di distanza da La fiammiferaia; lo fa con il suo consueto stile, con la mesta gentilezza sardonica che guarda a Chaplin e sa confrontarsi in maniera dialettica con una contemporaneità che aborre. In concorso a Cannes 2023.

Tempi moderni

Helsinki, oggi. Lei lavora in supermercato, ma viene licenziata quando si scopre che porta con sé a casa la merce scaduta invece di buttarla nell’immondizia. Lui è un metalmeccanico, ma i suoi problemi con l’alcol lo fanno cacciare dal lavoro. Si incontrano a una serata karaoke, ma a malapena si parlano. Si rivedono al cinema, ma lui perde il numero di telefono che lei gli ha dato. La radio rimanda solo notizie della guerra in Ucraina. [sinossi]

Tra il gennaio e l’autunno 1990, a ridosso della caduta del Muro di Berlino e della riunificazione tedesca, fece il giro del mondo Tulitikkutehtaan tyttö, vale a dire La fiammiferaia; Aki Kaurismäki chiudeva la sua “Trilogia dei perdenti” dedicata alla classe operaia con il suo lavoro più cupo e privo di speranza. Mentre l’Europa guardava con fin troppo ottimismo la fine del millennio e del secolo breve il più importante cineasta finlandese di sempre raccontava la parabola di un’operaia in una fabbrica di fiammiferi che arriva ad avvelenare con un derattizzante il fratello, la madre, il patrigno: la disumanizzazione del Capitale, già sottolineata nei precedenti Ombre nel paradiso e Ariel, trovava la sua definitiva affermazione, al punto che il processo industriale dal ceppo d’albero ai fiammiferi poteva anche fare a meno della presenza umana. Fa a meno dell’essere umano, nel senso che lo considera superfluo, anche il sistema finlandese contemporaneo dove l’unica cosa che conta è la merce come certifica la prima inquadratura di Kuolleet lehdet – il titolo in inglese scelto per la vendita internazionale è Fallen Leaves, in Italia Lucky Red ha optato per Foglie al vento –, diciottesimo lungometraggio per Kaurismäki in quarant’anni di carriera: sul tappetino mobile della cassa di un supermercato un cliente pone una quantità enorme di carne, che finisce per accatastarsi un pezzo sull’altro. Il supermercato è il luogo in cui lavora Ansa, interpretata da Alma Pöysti: sotto la nettezza delle luci al neon e l’ordine immacolato delle file la donna è testimone di uno spreco continuo di vivande che superano la data di scadenza. Il suo compito sarebbe quello di buttare tutto nell’immondizia, ma a volte porta a casa qualcosa che le sembra ancora commestibile, e in altre occasioni permette a qualche persona male in arnese di prendere con sé cartoni di latte o confezioni di cibo. Nel sistema del Capitale però anche questo è un crimine, perché ciò che appartiene al bidone dell’immondizia non può essere messo altrove, e quindi la donna viene licenziata in tronco ricevendo la solidarietà di due sue colleghe. Quella stessa sera Ansa va con una delle due colleghe, Liisa, in un pub dove ci si può esibire al karaoke, e lì assistono alla performance canora di Huotari, operaio in un cantiere edile che è lì con il collega Holappa (Jussi Vatanen). Holappa e Ansa si scrutano a vicenda, ma nessuno fa la prima mossa.

Oramai è chiaro da tempo come alla classe operaia non siano concesse le chiavi del Paradiso, e Kaurismäki torna a concentrare il suo sguardo sul proletariato, in un’epoca in cui in pochi sembrano aver voglia di farlo, se non per discutibili operazioni più prossime all’entomologia che allo scavo dell’umano. Dopo la trilogia dedicata alla Finlandia (Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato, e Le luci della sera) e due film incentrati invece sul concetto di porto e dunque di accoglienza come Miracolo a Le Havre e L’altro volto della speranza, il cineasta originario di Orimattila si ricollega a opere che sembravano oramai sperdute nel tempo, anche e forse soprattutto sotto il profilo della riflessione politica – non che Kaurismäki abbia mai mancato di coerenza. Ansa e Holappa, destinati ovviamente a incontrarsi di nuovo e a “cercarsi”, si muovono per Helsinki come due fantasmi, gli spettri del comunismo che non fanno però più paura a nessuno e possono essere trattati come merce avariata a loro volta, licenziati in tronco perché non si è seguito il protocollo senza neanche che il datore di lavoro si chieda cosa sarà di queste persone. Sempre più diretto e semplice – all’apparenza – sotto il profilo della messa in scena, Kaurismäki non ha bisogno di alcun orpello narrativo o estetico per raggiungere il cuore del discorso, e renderlo evidente a tutti. Così come la classe operaia del 1990 era tartassata dai telegiornali che parlavano della casa reale britannica, alla stessa stregua nel 2024 (il film, come certifica un calendario appeso al muro, è ambientato tra un anno) la radio non fa altro che rimandare notizie sui bombardamenti russi in Ucraina: notizie tragiche, com’è certo e ovvio, ma che annullano e anestetizzano qualsiasi riflessione sul sistema capitalista che manda alla morte i suoi stessi cittadini, spingendoli all’alcolismo – “sono depresso perché bevo e bevo perché sono depresso”, sentenzia in forma tautologica Holappa, che viene cacciato da ogni posto di lavoro per la sua dipendenza e dorme dove capita, magari anche su una panchina del parco –, e alla solitudine.

Luoghi desertificati dell’umano e che sembrano prossimi alla demolizione presentano nomi esotici come il pub California o il bar Buenos Aires, ma le stoviglie si lavano a mano e i proprietari vengono arrestati per traffico di droga. L’unico rifugio può essere ancora il cinema, dove pur essendo in minoranza due o tre persone possono affrontare moltitudini di zombi, nell’omaggio che Kaurismäki fa all’amico di sempre Jim Jarmusch (le immagini sono del suo I morti non muoiono, che viene accolto da due persone che stanno chiacchierando all’uscita come un incrocio tra Il diario di un curato di campagna di Robert Bresson e Bande à part di Jean-Luc Godard): ai muri ancora resiste il cinema, tra un poster di Rocco e i suoi fratelli, uno di Pierrot le fou e uno de L’argent, in un mondo per il resto vuoto e dove come sempre l’umano può al massimo trovare la consolazione nel rapporto con un cane. Lo stile di Kaurismäki, divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica tanto nell’utilizzo del quadro cinematografico quanto nella scelta fotografica e negli stacchi di montaggio (non sentire mai la necessità di cambiare, in un mondo che finge palingenesi in continuazione, non è una scelta reazionaria), si pone sempre all’altezza dei suoi personaggi, cerca di comprenderli, ne sposa con afflato non privo di ironia le istanze. I tutori dell’ordine alla maniera nazista non fanno altro che eseguire ordini, si intona la Serenade di Schubert, ma un uomo e una donna possono ancora incontrarsi, forse innamorarsi – “siamo quasi sposati” confida Holappa al suo collega quando c’è stato solo un mezzo appuntamento e per di più quasi causale –, e andare avanti chaplinianamente verso il futuro, nonostante tutto. Struggente, divertente, romantico e disilluso, il cinema di Aki Kaurismäki è l’unico oggi a guardare ancora i suoi personaggi con lo sguardo disperatamente complice che insegnò al mondo Charlie Chaplin; uno dei pochi, forse l’unico, a saper condensare nella medesima inquadratura il rigore marxista dell’analisi a una forte carica di socialismo libertario, utopico. Un cinema che non avrà mai una data di scadenza, e per questo probabilmente in pochi vogliono sugli scaffali del super-marché dell’industria.

Info
Foglie al vento sul sito del Festival di Cannes.

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