Invelle

Invelle

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Invelle, in dialetto marchigiano “in nessun posto”, segna a cinquantatré anni l’esordio alla regia di un lungometraggio per l’animatore pergolese Simone Massi, che utilizzando tre momenti di passaggio fondamentali dell’Italia novecentesca orchestra uno struggente racconto famigliare di rara potenza politica ed efficacia estetica. Un viaggio nell’Italia contadina e resistente che si muove tra disegno tradizionale e rotoscopio. Dopo la presentazione in concorso a Orizzonti a Venezia tra le proiezioni di Alice nella Città alla Festa di Roma.

La terra, la guerra, una questione privata

Nel 1918 Zelinda è una bambina contadina con la madre in cielo e il padre in guerra. Le tocca smettere l’infanzia e indossare la casa, i fratelli, la stalla e le bestie. Un giorno Zelinda torna ad avere una madre e un padre. Alla fiera del paese la bambina si stringe al babbo e spalanca gli occhi per far posto a tutte le cose che gli si parano davanti. Vere o immaginate che fossero, Zelinda quelle cose ormai le ha viste e si è fatta una sua idea di come gira il mondo. Gira così velocemente che di colpo la sua storia diventa quella di un’altra. Nel 1943 Assunta è una bambina contadina che sta in equilibrio su una gamba, con la testa guarda il cielo e tiene il piede in guerra (un’altra!). Ma appena ha modo Assunta si cuce un vestito colorato, fa un saltello e hop! la guerra era tutto uno scherzo, o comunque adesso non c’è più. La guerra (forse!) non c’è più e con essa scompare un mondo intero: un salto più grande di quel che sembrava. Nel 1978 Icaro è un bambino contadino che gira in tondo attorno al niente. È stato sognato tanti anni prima e deve fare e farà quello che non è stato possibile per sua madre e sua nonna. E per chi è venuto prima di loro. E prima ancora. E prima ancora. [sinossi]

“Dove sei stato tutto questo tempo?”, è la domanda che risuona in Invelle, e la risposta non può che essere il titolo stesso che in dialetto marchigiano – almeno quello d’uso sulle colline del pesarese – sta a significare in nessun luogo, da nessuna parte. Come può dopotutto “avere un posto” da occupare quella classe contadina che ha servito la propria terra, ne è stata depredata, è stata utilizzata come carne da macello in due guerre mondiali per poi essere ridotta all’irrilevanza da un sistema politico, economico, e sociale che si è dato una postura democratica ma ha dimenticato da parte il popolo? “Dove sei stato tutto questo tempo?” è anche la domanda che parte del pubblico italiano, e probabilmente degli addetti ai lavori (vista la scarsa curiosità che si può rintracciare nel settore), rivolgerà a Simone Massi al termine della visione di questa sua prima incursione nel lungometraggio, con cui si cimenta a cinquantatré anni; ignorando, suddette porzioni di pubblico, il corpus artistico e produttivo del cineasta pergolese, germinato quasi trent’anni fa con Immemoria e poi arricchitosi nel tempo, passando di cortometraggio in cortometraggio. Una carriera inevitabilmente ai margini, con l’orgoglio di chi si rifiuta di assecondare l’aria del tempo, un po’ come i personaggi che mette in scena. Se Invelle è un film politico, è ovviamente lo è, non è solo per ciò che rappresenta sullo schermo, quest’ode lirica al mondo contadino e operaio in cui lo stesso regista è cresciuto; la stessa edificazione artistica delle opere di Massi è concettualmente politica, sia per la volontà di muoversi in un territorio liminare all’interno delle dinamiche italiane come l’animazione, sia per rivendicare la fatica dell’animare, il lavoro sul disegno, sul carboncino, sul passo uno, sul rotoscopio, tutte tecniche che rifuggono la contemporaneità per riappropriarsi del rapporto fisico col disegno, e dunque della sua evoluzione materica che poi sarà tradotta nell’immateriale utopia cinematografica. Ecco, forse se si dovesse rispondere su dove sia stato in tutto questo tempo Massi si dovrebbe dire che “ha lavorato”, un logorio della mano, della tempera, dei colori che si tramuta in immagine lirica, sognante, eppure ricacciata a terra dalla tragedia dell’umano, del vivere e morire in un non-luogo da cui non si può spiccare il volo neanche se ci si chiama Icaro.

Parte da una parola del proprio dialetto, Massi, ma poi dona ai doppiatori – le voci hanno un ruolo di raccordo e di senso particolarmente importante in un’opera rarefatta qual è Invelle – la libertà di utilizzare la propria di parlata, quella in cui si è cresciuti, quella in cui ognuno affonda le proprie radici. Ha un sentore di Novecento, nel senso bertolucciano del termine ma anche nel pensiero che elabora e mette in scena, Invelle: l’epopea in odor di Pellizza da Volpedo attraversa infatti la Storia di una nazione in completo disfacimento/rifacimento, mandata in guerra non una ma ben due volte, sfiancata da pandemie – la Spagnola, ovviamente –, di nuovo martoriata dallo stragismo fascista e di Stato, e poi defunta (forse) nel cadavere di Moro ritrovato nel bagagliaio della Renault 4 parcheggiata in via Caetani. Massi torna alle proprie storie famigliari, e a quelle del piccolo nucleo umano in cui è nato e cresciuto, e ne rivendica l’urgenza rappresentativa, laddove i macro-movimenti della Storia l’hanno sempre sottomessa, schiacciata, resa invisibile. Così si arriva a poter sovrapporre il gesto artistico di Massi con l’atto politico che lo guida nel racconto: solo un disegno disadorno, in cui lo spazio vuoto può addirittura dominare nei confronti di ciò che è tratteggiato può avere l’ardire di narrare la vita, la morte, l’antropologia di un microcosmo in cui lo spazio vuoto rappresentato da tutto ciò che ha un luogo e dunque può esercitare un potere sovrasta la quotidianità di un popolo su cui in pochi si sono soffermati, in Italia come altrove. È un canto collettivo eppur privato quello che eleva Massi, un canto che si articola tra la morte per mano dello Stato di Sante Caserio e quella identica eppur dissimile di Federico García Lorca. C’è il dissenso verso il mondo che lo circonda del suicida Cesare Pavese, ma c’è anche l’amarezza insostenibile di chi la Resistenza contro i nazi-fascisti l’ha fatta, ha visto morire compagni e distrutte campagne e case, per poi risvegliarsi in un’Italia democratica a parole ma del tutto distante da quel sogno di rinnovamento che chi era andato sui monti con i fucili aveva ipotizzato.

Zelinda, Assunta, e Icaro sono i tre movimenti umani attorno ai quali si articola il racconto di Massi, con la prima che attraversa l’intero film e che in qualche modo ne è la vera e principale eroina. Loro tre, nonna/madre/figlio, solo l’utopia incarnata di potersi evolvere, di meritare l’attenzione di un pubblico che forse dall’animazione vorrebbe solo animali antropomorfi, e ninnananne già preordinate e preconfezionate per bimbi in età scolare. Zelinda, Assunta, e Icaro sono vissuti però, anche se con altri nomi, sono l’innominata gente che ha lavorato la terra, si è fatta erodere dalla stessa, ha popolato l’Italia e il mondo e poche volte ha ottenuto di essere l’epicentro dello sguardo. Nella bicromia predominante, quel contrasto tra il nero e il bianco che sottolinea il conflitto imperituro da cui nasce la definizione dell’immagine, che è poi screziato di lampi di colore (a partire dal foulard rosso che contraddistingue Zelinda) improvvisi ma effimeri, si avverte di nuovo il senso di un’operazione anomala e per questo ancor più coraggiosa perché effettuata in un’epoca mediocre, abituata all’ovvio e senza più quasi nessuna spinta utopica. Ma il fascio littorio si può far sparire, con un gesto cinematografico, e nell’arco di pochi fotogrammi far “riaprire le finestre” nel rosso di una bandiera, e la morte la si può dissimulare liricamente senza per questo far perdere efficacia al dolore stremante, all’insostenibilità del dramma del vivere vessati, soverchiati, e poi anche a sfregio ultimo dimenticati. Come La ballata di Sante Caserio di Pietro Gori, che accompagna i titoli di coda, anche Invelle è una “canzone che sa di pianto”, e che coerentemente si chiude con un grido per l’anarchia dopo aver raccontato la resistenza contadina contro tutto e tutti, dalla natura – e Icaro che si perde nel sogno/bosco/collina a distanza dalla sua gente ha un ché di bellocchiano che rientra perfettamente nei riferimenti culturali e cinematografici del film – alla società, sia essa la barbarie fascista o l’ipocrisia democristiana. Di opere preziose come Invelle il cinema italiano non ne produce molte, ed è invece anche da qui che si deve ripartire per donare finalmente complessità alle opere contemporanee, stratificazione poetica, politica, filosofica, e di linguaggio. Dopo la presentazione in concorso a Orizzonti a Venezia il film viene doverosamente replicato alla Festa di Roma grazie ad Alice nella Città, che si adopera anche a una retrospettiva dei lavori brevi di Simone Massi. In attesa di un’uscita in sala che sarebbe delittuoso da parte di tutti – distribuzione, critica, pubblico – non accompagnare nel modo adeguato. Resistendo.

Info
Invelle, il trailer.

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