Il cielo brucia

Il cielo brucia

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Decimo lungometraggio in ventitré anni di carriera per Christian Petzold, Il cielo brucia segue di tre anni l’immediatamente precedente Undine; se lì il mito delle fate dell’acqua serviva “sfruttare” il secondo dei quattro elementi, qui a prendersi il suo spazio nella narrazione è il fuoco. Un lavoro che testimonia il fertile sguardo del cineasta tedesco, tra i pochi in grado di rappresentare nel frastuono del contemporaneo la solitudine, e la disperata – e spesso egotica – ricerca del sentimento.

La Giovane Germania

Mentre le giornate si trascinano torride e senza pioggia da settimane, quattro giovani – amici da lungo da tempo – si riuniscono in una modesta casa sul Mar Baltico. Proprio come le foreste circostanti, oramai prosciugate, iniziano a prendere fuoco, così i loro sentimenti si abbandonano alla fiamma della felicità, dell’amore e del desiderio ma anche della gelosia, del risentimento e della tensione. In poco tempo, gli incendi divampano con sempre maggiore intensità. Proprio come le vampe che ardono dentro di loro. [sinossi]
Täglich ging die wunderschöne
Sultanstochter auf und nieder
Um die Abendzeit am Springbrunn,
Wo die weißen Wasser plätschern.
Täglich stand der junge Sklave
Um die Abendzeit am Springbrunn,
Wo die weißen Wasser plätschern;
Täglich ward er bleich und bleicher.
Eines Abends trat die Fürstin
Auf ihn zu mit raschen Worten:
Deinen Namen will ich wissen,
Deine Heimath, deine Sippschaft!
Und der Sklave sprach: ich heiße
Mohamet, ich bin aus Yemmen,
Und mein Stamm sind jene Asra,
Welche sterben wenn sie lieben.

Ogni giorno passeggiava la bellissima
figlia del Sultano avanti e indietro
di sera ai bordi della fontana,
dove zampilla la bianca acqua.
Ogni giorno stava il giovane schiavo
di sera presso la fontana
dove zampilla la bianca acqua;
ogni giorno era sempre più smorto.
Una sera la principessa andò
presso di lui con rapide parole:
“Voglio sapere il tuo nome,
la tua terra e la tua gente.”
E lo schiavo disse: “Il mio nome è
Mohamet, vengo dallo Yemen,
e la mia tribù è quella degli Asra,
coloro che muoiono quando amano.”

Heinrich Heine (dal Romancero, 1851)

C’è un punto di svolta ne Il cielo brucia, decimo lungometraggio diretto da Christian Petzold in ventitré anni di carriera, un passaggio che cambia le prospettive al mondo fin lì raccontato con grazia soave e una non indifferente dose di ironia e sarcasmo da parte del cineasta tedesco: il quartetto sbilenco e anche abbastanza casuale rappresentato da Leon, Felix, Nadja, e Devid, che si è ritrovato quasi suo malgrado a condividere la casa di vacanza dei genitori di Felix – aspirante fotografo –, viene raggiunto poco prima dell’ora di cena da Helmut, l’editore di Leon che è ansioso di leggere finalmente il tanto agognato lavoro letterario del suo pupillo. Il testo non sembra però convincerlo particolarmente – dopotutto Leon ha già confessato a Nadja come l’impressione data da Helmut è che si tratti di scheiße, vale a dire “merda”: dopotutto anche la ragazza ha riscontrato fortissime debolezze nel romanzo dopo averne letto una bozza –, e durante la cena l’uomo preferisce discettare con Felix del portfolio che sta allestendo. A un certo punto l’attenzione si sposta però su Nadja, che rivela di essersi laureata in letteratura tedesca, e cita a memoria Der Asra (L’asra), la poesia in cui Heinrich Heine narra dell’amore irrealizzabile di uno schiavo per la figlia del sultano, e della tribù yemenita degli Asra “coloro che muoiono quando amano”. L’amore è di nuovo il centro del discorso nel cinema di Petzold, e Roter Himmel (letteralmente “cielo rosso”) si muove in una direzione per niente dissimile al precedente Undine, apparso sugli schermi della Berlinale nel febbraio 2020, un attimo prima che l’Europa si chiudesse a riccio nei lockdown, e con lei anche il resto del mondo chi più chi meno. Si chiude a riccio anche Leon, sbruffone egocentrico che nasconde dietro questa maschera un’insicurezza atavica, ma anche un desiderio di possesso quasi ontologico: è geloso di Nadja, certo, perché vorrebbe concupirla – e giustifica l’incomprensione del suo talento da parte della bella ragazza solo perché con sprezzo classista è convinto che sia “solo” una gelataia –, e forse persino dell’amico Felix che si è lanciato nella seduzione di Devid, ed è geloso altresì delle attenzioni che Helmut riserva ai talenti degli altri convitati, quasi ciò lo depauperasse di un diritto ancestrale. Ma è geloso soprattutto della sua arte, Leon, e della propria qualità intellettuale. Proprio per questo l’intervento inatteso di Nadja su Heine viene utilizzato da Petzold come momento di svolta ineluttabile del racconto: il giovane romanziere che ambirebbe anche a dormire nella stessa stanza in cui visse e lavorò Uwe Johnson viene “battuto” sul suo stesso campo da una gelataia, da un essere umano che può svolgere il ruolo di musa – e dopotutto entra in scena dapprima solo come elemento sonoro, mentre raggiunge l’orgasmo con qualcuno in una stanza adiacente a quella in cui dormono Felix e Leon, e come prima mano tesa alla convivenza si offre di cucinare per tutti –, ma non molto di più.

È davvero affascinante la modalità narrativa attraverso cui Petzold riesce a far emergere stratificazioni da un contesto non solo abbastanza piano – in fin dei conti il film si limita a raccontare la quotidianità di un’estate al mare, tra Ahrenshoop, Kühlungsborn e Wustrow, nella Pomerania Anteriore, in un processo naturalistico che potrebbe quasi apparire “rohmeriano” – ma anche canonico, in qualche misura persino “prevedibile”. Partendo dalla quotidianità, progressivamente Il cielo brucia si muove dapprima in direzione della paranoia, con gli incendi in avvicinamento da altre zone del land, e quindi sdoppia la sua narrazione, replicando contemporaneamente lavita vissuta e quella romanzata, in una sovrapposizione tra esistenza e arte che non si riduce mai alla mera retorica ma si articola verso una acuta riflessione del romanticismo, e del più profondo spirito germanico. Ecco dunque che il riferimento a Heine, tra le figure più rilevanti della Junges Deutschland (corrente letteraria figlia della Rivoluzione parigina del 1830) acquista un valore ancora più penetrante; come Undine si rifaceva al mito tutto germanico delle sirene fluviali, così Il cielo brucia guarda a coloro che muoiono quando amano, bruciando letteralmente la propria esistenza. Il fuoco è il nuovo elemento, dopo l’acqua del film precedente, e nel film entra sia in modo materico che esistenziale: così la commedia di Petzold, la prima della sua ultra ventennale carriera, arde nell’ultima parte – dopo la svolta già descritta in precedenza con la cena che ha tra gli ospiti Helmut – in modo repentino, come le fiamme che d’improvviso divampano nel bel mezzo di un incendio, avanzando a un ritmo forsennato. Ma i segnali Petzold li dissemina per l’intero film, fin da quell’incipit che vede Leon e Felix alle prese con un irreparabile (e mai riparato) guasto all’automobile di quest’ultimo. Non sono nel mezzo del cammin di loro vita, i due, ma si ritrovano per qualche chilometro in una selva oscura, che è quella in cui si perderà di nuovo Leon imbattendosi in un cucciolo di cinghiale agonizzante. In quel campo controcampo tra Leon e il piccolo suide si articola la dialettica tra l’eroe romantico e la natura, ma in una visione prospettica che non sposa le derive utopiche dello Sturm und Drang.

Christian Petzold è tra i pochi cineasti contemporanei a riuscire a cogliere nel frastuono nel mondo moderno la solitudine e la ricerca, non priva di egotismo, del sentimento. In tal senso il protagonista interpretato da un eccellente Thomas Schubert – tutto il cast è in splendida forma, a partire ovviamente da Paula Beer, qui alla terza collaborazione con il regista – è il paradigma perfetto dello schema ordito da Petzold. Arrogante e goffissimo, ottuso e insicuro, dolce e sprezzante, Leon è la raffigurazione di un uomo che vive nella perenne discrasia tra ricerca dell’altro – in particolar modo dell’amor gentile – e chiusura nella propria sfera, posizionata in tutta sicurezza al di sopra del proscenio nel quale si muove. Petzold non ha alcuna intenzione di disintegrare il proprio “eroe” ma lo pone in una situazione di perenne crisi, tra frustrazione sessuale e artistica, e incapacità di vivere nella natura – Felix cerca in modo estenuante di trascinarlo con lui in spiaggia, e l’unica volta che lo segue Leon rischia l’insolazione per essersi addormentato sull’asciugamano. Raffigurazione dell’artista che non ha contatto con il vero, Leon è in qualche modo lo specchio/alter ego delle preoccupazioni e delle ansie dello stesso Petzold, e così Il cielo brucia si trasforma in una riflessione sulla narrazione in sé, e sul ruolo che svolge nelle dinamiche umane, e nella necessità di un’introspezione che sappia essere lettura del mondo. Anche perché perfino un corpo carbonizzato può diventare un oggetto di speculazione artistica e filosofica, e gli amanti di Pompei citati nel film stanno lì a simboleggiarlo. Con soave leggerezza Petzold scava nell’animo fallimentare di una generazione che approccia l’arte in modo velleitario, o non vivendola con la passione bruciante che meriterebbe: così mentre gli austriaci Wallners intonano ossessivamente In My Mind si inizia a percepire come il pianeta a cui tutti ruotano attorno, Nadja, sia in realtà l’asse rotatorio in sé, e il principale epicentro dello sguardo, e del senso del film. La musa diventa poeta, l’oggetto diventa soggetto. Solo così si crea la dialettica, e dunque la narrazione. Solo così si domina il fuoco.

Info
Il cielo brucia, trailer.

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