Él

Scambiato all’epoca della sua realizzazione per un mélo sull’ossessione per l’adulterio Él è invece uno dei capolavori più lucenti dell’intera filmografia di Luis Buñuel. Tra i primi titoli a configurare in modo compiuto l’archetipo dell’eroe buñueliano (virtuoso agli occhi del mondo ma dominato da una sfera del desiderio da cui finisce per essere distrutto) Él si collega direttamente a L’âge d’or tanto per il tema di fondo, vale a dire la messa alla berlina dei valori borghesi e cristiani, quanto per il beffardo riflesso sadiano.

Le sciagure della virtù

La storia di Francisco Galván, un uomo in preda di una gelosia folle e insana, che porta alla rovina la sua famiglia e, in particolare, Gloria, la moglie accusata di ogni nefandezza. [sinossi]

Non è poi così incomprensibile che Él abbia raggiunto solo nei mesi scorsi, a settant’anni dalla sua realizzazione, le sale cinematografiche italiane grazie alla circuitazione della copia restaurata in digitale del film da parte della Cineteca di Bologna. Anche se oggi il film è considerato in modo unanime uno dei capolavori indiscussi della filmografia di Luis Buñuel, alla stregua (tra gli altri) di Viridiana, L’angelo sterminatore, Bella di giorno, e Quell’oscuro oggetto del desiderio, nel 1953 in pochi sembrarono comprenderlo, al punto che perfino Jean Cocteau arrivò a suggerire come non si trattasse d’altro se non del “suicidio”, ovviamente artistico, del regista spagnolo trapiantato in Messico. A Cannes, dove prendeva parte al concorso, venne snobbato tanto dal pubblico quanto dalla critica e dal festival stesso, che al momento della distribuzione dei premi gli preferì ben due film parlati in spagnolo, La red del messicano Emilio Fernández e lo spagnolo Luis García Berlanga con il suo Bienvenido Mister Marshall. Fu quasi il solo André Bazin a difendere il film, in cui vedeva la raffigurazione cinematografica dei trompe d’œil surrealisti, che d’altro canto venne ridicolizzato anche in patria, con il pubblico messicano che lo scambiò sia per un farsa (“ma ridono!” pare abbia esclamato scandalizzato il produttore a Buñuel uscendo dalla sala) che per un mélo morboso. Non meglio andò in Italia, con la celebre stroncatura di Guido Aristarco sulle pagine di «Cinema Nuovo»: “Un vago ricordo di L’Âge d’or si ha dinanzi alla sequenza iniziale di Él, la funzione nella cattedrale durante una settimana santa. In seguito, il film si avvicina al dramma di Otello; ma l’uomo che qui diventa pazzo di gelosia, al punto di tentare più volte di uccidere la moglie, è un paranoico che può interessare soltanto i patiti di Freud. Tutta l’opera di Buñuel, sopravvalutata specie in Francia, va revisionata al lume delle recenti esperienze, di certe sue dichiarazioni sul pubblico inteso come élite. Su questo regista pesa l’avanguardia di un tempo (oggi retroguardia); comunque egli ha fatto un passo indietro rispetto al pur discutibile Los olvidados, che cercava di rifarsi a Sciuscià di De Sica”. Nel rileggere l’attacco frontale mosso da Aristarco non serve soffermarsi sull’abbaglio critico, deflagrante in tutta la sua evidenza, ma semmai può essere utile ragionare sui motivi più profondi che possono aver innescato un rifiuto così mondiale del film, da Aristarco fino alle colonne del «New York Times» dalle quali A.H. Weiler tuona, nel dicembre 1955 “Come alcuni hanno già notato, le tesi del signor Buñuel non sono molto profonde. Noi vorremmo definirle piuttosto confuse”. Occorre sottolineare come Él sia rimasto privo di distribuzione in Italia: il pubblico della penisola ebbe l’occasione di vederlo solo sul piccolo schermo nel novembre del 1981, quando la Rete 2 – il secondo canale della Rai – lo programmò, al punto da meritare un acuto intervento di Ugo Buzzolan su «La Stampa», che oltre a puntellare sotto il profilo critico il film si interroga a sua volta sull’ostracismo cui andò incontro.

Le motivazioni per cui Él per l’Italia restò relegato alla proiezione sulla Croisette, e quindi ai fortunati (che tali a quanto pare non si accorsero di essere) accreditati al festival, sulla carta possono essere molte: la fredda accoglienza della stampa, la mancanza di un riconoscimento ufficiale che potesse fare da traino economico, lo scarso fascino esercitato sul pubblico dal cinema messicano, l’assenza di volti facilmente riconoscibili, e via discorrendo. Ma con ogni probabilità la verità si cela altrove: la storia di don Francisco Galván, che durante la cerimonia della lavanda dei piedi distogliendo lo sguardo dai baci forse non del tutto privi di malizia con cui il prete benedice le estremità dei chierichetti si trova ad ardere di desiderio per quelle – non scalze – di una giovane donna in seconda fila, al punto da essere tormentato dal desiderio di sposarla per poterla possedere, metteva alla berlina in un colpo solo tanto la borghesia (anche quella illuminata) quanto il clero. Dissacrava il matrimonio. Poneva al centro del discorso un vizioso, un paranoico, una figura egotica, e allo stesso tempo incapace di trovare requie nella realizzazione del desiderio stesso. Una scelta non tollerabile in una nazione in cui la chiesa cattolica aveva un peso preminente e nella quale tutti i partiti dell’arco parlamentare, ivi compreso il Partito Comunista Italiano, vedeva nella borghesia l’elemento centrale di un discorso progressivo ed evolutivo. L’eresia di Buñuel andava dunque a solleticare in modo intollerabile un nervo scoperto. Da qui il gran rifiuto. Ovviamente il tempo lenisce ogni ferita, e oggi nessuno si sognerebbe di alzare un sopracciglio di fronte a Él e in generale nei confronti del cinema di Luis Buñuel, ma nel 1953 questo regista che aveva abbandonato l’Europa per trovare rifugio dall’altra parte dell’oceano – ma non nei vicini Stati Uniti, i vincitori della Seconda guerra mondiale – non era né conosciuto né sovente ri-conosciuto: certo, qualcuno serbava memoria del suo contributo alle avanguardie storiche (Un chien andalou e L’âge d’or, più difficile che si ricordasse lo straordinario Las Hurdes – Tierra sin pan), e I figli della violenza aveva pur sempre ricevuto il riconoscimento per la miglior regia a Cannes nel 1951, ma mancava una reale lettura critica dell’opera del grande cineasta, al punto che Aristarco non temeva a definirla “sopravvalutata”.

Eppure anche al di là delle sue qualità prettamente tecnico-artistiche (nel soffermarsi con lo sguardo di fronte ad alcune sequenze non è difficile immaginare che Alfred Hitchcock avesse ben stagliato nella mente il lavoro di Buñuel quando di lì a pochi anni si mise all’opera per girare La donna che visse due volte) Él è un film di straordinaria importanza anche e soprattutto per quel che concerne l’opera del regista, e l’evoluzione del suo pensiero. Non è un mistero che Buñuel si sentesse profondamente legato a quest’opera, al punto tale da essere lui stesso in prima persona a sostituirsi ad Arturo de Córdova per interpretare il personaggio di don Francisco nel finale del film, quando l’uomo ormai fuori dal mondo da un decennio si ritrova ancora a muoversi zigzagando, evitando la via retta, evitando la prassi borghese, e dunque palesandosi come pazzo, fuori di senno, deviato. Un finale che riesce a utilizzare l’arma del sarcasmo di cui le bocche da fuoco buñueliane erano sempre cariche senza evitare un forte senso di disagio allo spettatore, conscio di aver attraversato le forche caudine della psicopatologia senza però che esista una reale via di fuga, né che vi siano i prodromi di una guarigione possibile. Non si guarisce dall’ossessione amorosa, ma ancor di più non è possibile trovare la chiave d’accesso per salvarsi dal fallocentrismo egotico, dalla pretesa di aver diritto a dominare l’oscuro oggetto del desiderio in ogni forma possibile e immaginabile: Francisco ricucirebbe alla bell’e meglio con tanto di ago e filo la vagina della consorte, che minaccia anche con una pistola caricata a salve. È un suo diritto di maschio, e ancor più di maschio di potere, agire in cotal maniera. La ripresa è ovviamente anche apertamente sadiana, e rende Francisco Galván in un certo qual modo il prototipo dell'(anti)eroe nel cinema di Buñuel, con la sua paranoia, l’impossibilità di accettare il reale senza poterlo maneggiare a piacimento, teso alla manipolazione e distruzione del femminile (la sua consorte è dopotutto una novella Justine, rivista e corretta per l’occasione). La follia di Francisco è già, nel senso che nel film è già avvenuta, essendo la costruzione di Él articolata à rebours, controcorrente, seguendo un racconto che è per forza parziale, e dunque non oggettivo. L’episteme quindi è proprio nell’immagine, in cui la follia ha ancora diritto di mostrarsi, pur nella quiete apparente di un monastero. Basta un muoversi a zigzag, per sovvertire l’ordine, ma senza poter mai emergere dal delirio paranoide in cui ci si immerge. Non esiste forse, nell’intera filmografia di Luis Buñuel, un film straziante e disperato quanto Él.

Info
Él, il trailer.

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