Iddu

Concentrandosi su una fase della latitanza del boss Matteo Messina Denaro e sulla sua corrispondenza con il padrino di battesimo Catello, Grassadonia e Piazza in Iddu alternano equamente scene con i due protagonisti Germano e Servillo, dramma mafioso e commedia grottesca, ma il film procede rigidamente senza lasciare molto su cui riflettere allo spettatore. In concorso a Venezia 81.

L’espressione di ghiaccio di un giovane padrino

Sicilia, primi anni Duemila. Dopo alcuni anni in prigione per mafia, Catello, preside di scuola e politico intrallazzone, ha perso tutto. Quando i Servizi segreti gli chiedono aiuto per catturare il suo figlioccio Matteo, boss mafioso da tempo latitante, Catello non ha molta scelta e, forte delle sue camaleontiche e furbesche abilità, inizia uno scambio epistolare con il latitante, cercando di far leva su quei sentimenti e affetti familiari che sono al boss da tempo negati. [sinossi]

La ricerca di una nuova via al cinema a tema mafioso è da sempre alla base delle interessanti, coraggiose, seppur non sempre del tutto riuscite, elaborazioni cinematografiche di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. La coppia di registi e sceneggiatori, ha infatti mescolato mafia movie e mélo in Salvo, lacclamato esordio presentato alla Semaine de la Critique di Cannes nel 2013, con il successivo Sicilian Ghost Story (alla Semaine nel 2017) ha poi immerso in atmosfere fantasy/fiabesche, con sprazzi di teen movie, la tragica vicenda del fantino tredicenne Giuseppe di Matteo, ucciso e poi disciolto nell’acido, perché figlio di un collaboratore di giustizia. Coerentemente, per il loro terzo lungometraggio, i due autori scelgono di raccontare la storia di chi ordinò quell’efferato crimine: il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, responsabile di numerosi omicidi, pupillo di Totò Riina, con un ruolo chiave nelle stragi mafiose degli anni ‘90, nonché protagonista delle cronache giornalistiche recenti, in occasione del suo arresto, nel 2023, e della di poco successiva morte. In concorso a Venezia 81, Iddu, evitando saggiamente di riaffrontare quest’ultima fase della vita del boss, d’altronde sin troppo snocciolata dai media, si concentra invece su una porzione della sua latitanza, quella intorno ai primi anni 2000. Per imbastire lo script, i due autori si sono ispirati liberamente agli scambi epistolari tra Matteo Messina Denaro e l’ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino, editi nel libro Lettere a Svetonio a cura di Salvatore Mugno (2008), un canovaccio che dà origine però a una struttura narrativa sin troppo rigidamente bipartita. Da un lato abbiamo il boss Matteo, noto come Iddu (Elio Germano), che dal suo nascondiglio, dapprima è perso nei ricordi/flashback utili a rievocarne l’infanzia e l’ascesa poi, con l’aiuto della sua elegante segretaria (Barbora Bobulova), si attiva nella ricezione e stesura dei pizzini. L’altro filone del racconto, che seguiamo in montaggio alternato, prevede invece le vicende del “preside” (il sindaco di Castelvetrano è sì presente, ma con ruolo di antagonista) Catello (Toni Servillo) che, appena uscito di prigione, si ritrova senza più lavoro, né gli appoggi mafiosi di un tempo per i propri affari. Ma dal momento che è stato il padrino di battesimo di Matteo, ecco ben presto arrivargli una proposta “lavorativa” che non può rifiutare: una squadra di agenti dei servizi segreti lo recluta per riallacciare i rapporti con il figlioccio, nella speranza di stanare il malavitoso dalla latitanza. 

Data la presenza di due mattatori di tal fatta, quali Germano e Servillo, nei ruoli principali, va da sé che Iddu si appoggi prevalentemente alle loro performance, che aprono a innesti con generi cinematografici ben distinti: da un lato (quello del boss) il melodramma criminale, dall’altro (il versante Catello) la commedia grottesca, pronta ad aprirsi al poliziesco nelle scene in cui il faccendiere è a colloquio con i servizi segreti, momenti che però  appaiono talmente intrisi di “spiegoni” narrativi, da far sentire lo spettatore immerso in un podcast radiofonico. A Grassadonia e Piazza non manca certo il talento e il gusto per la messa in scena, e lo hanno già ampiamente dimostrato nei due lungometraggi precedenti, pertanto, specie nella prima parte di Iddu, si prodigano in avvolgenti movimenti di macchina e numerosi sali e scendi di dolly, utili ad accompagnare flashback e celare ellissi narrative. Ma a lungo andare, complice lo script così rigidamente bipartito, il film pare adagiarsi con troppa sicumera sul rimpallo instaurato dal montaggio alternato, dimenticando di fornire profondità ai propri personaggi. Pertanto il boss Matteo resta una figurina bidimensionale in penombra, con i Ray-Ban a coprire, per usare i versi di un celebre brano targato Mogol/Battisti “l’espressione di ghiaccio di un giovane padrino”, mentre il suo comprimario appare come un intrallazzone simpatico sì, ma affetto da eccessiva clownerie. Va da sè che entrambi, alla fine dei giochi, e per restare sulla nostra citazione, sembrano soltanto “gli interpreti di un film” e mai dei personaggi a tutto tondo. Non va meglio poi con i ruoli di contorno, e il legame che dovrebbe instaurarsi a un certo punto tra Catello e la detective perennemente ingrugnita dalla brama di cattura (Daniela Marra), non funziona, lasciando troppo a lungo in scena questo personaggio femminile piuttosto esile, al pari tra l’altro dei suoi compagni di set, quei bigi emissari dai dialetti del nord, ma senza identità.

Quanto alla logica chiusura dello schema di montaggio prescelto, ovvero il convergere di Iddu, Catello e la volitiva poliziotta in un campo dall’erba alta – un momento che ricorda il finale di I padroni della notte di James Gray – si rivela purtroppo un’occasione mancata, da parte dei due registi, per affrontare una sequenza action ben calibrata e davvero emozionante. Sono proprio emozioni e tensione a mancare nel corso di questa prolungata caccia all’uomo, insieme alle motivazioni e back stories dei vari personaggi e a uno sguardo personale e ragionato sugli eventi proposti, difetti da addebitare certo a scelte di sceneggiatura, ma ai quali finisce per concorrere proprio quella ricerca, da parte dei due registi, di trovare un’altra via al cinema a tema mafioso. Una via che qui passa qui, oltre che dalle ibridazioni tra generi, anche per colti riferimenti cinematografici. Nelle curate immagini del film, orchestrate dai registi con il direttore della fotografia Luca Bigazzi, traspaiono infatti ora echi de Il padrino di Coppola, tra tonalità ocra, veneziane e carta da parati, ora aperture a tonalità à la Suspiria di Dario Argento. Quel puzzle con cui si intrattiene il boss, riporta alla mente poi nientemeno che Quarto Potere di Orson Welles e quando Matteo/Germano si allena al vogatore il riferimento è al protagonista di Le mani sulla città di Francesco Rosi, uno speculatore edilizio (incarnato da Rod Steiger) scaltro e spietato, e per niente arruffone. E così, mentre le note composte da Colapesce omaggiano sobriamente il Morricone di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, per poi però chiosare, nei titoli di coda su una canzone un po’ maldestra che parla di “Malvagità umana”, si fa strada l’idea che questa animosa ricerca di una via al film sulla mafia aperto alle commissioni tra generi e ai colti riferimenti cinematografici, ma che non vuole abbracciare gli stilemi di un cinema che sia anche d’impegno, non può funzionare, non del tutto almeno. E allora forse bisogna ammettere  che il cinema sulla mafia può e deve tornare ad essere politico. E anche impegnato. Non se ne deve vergognare.


Info:
La scheda di Iddu sul sito della Biennale.
Il trailer di Iddu.

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