Outrage Beyond

Outrage Beyond

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Kitano opera un ribaltamento completo nella struttura rispetto al precedente film: laddove in Outrage a un’orgia di violenza faceva seguito la ricerca della dialettica, in Outrage Beyond la prima verbosa parte viene smentita (o, per meglio dire, completata) da un crescendo finale in cui la vendetta di Otomo – il personaggio interpretato proprio da ‘Beat’ Takeshi – prende corpo.

La vendetta di Otomo

Il mondo criminale della yakuza viene scosso da una guerra tra potenti famiglie: i Sanno dell’est e gli Hanabishi dell’ovest. Uno scontro che vedrà coinvolta anche la polizia e che si risolverà grazie all’inaspettato intervento di un vecchio criminale creduto morto da tutti… [sinossi]

Strana creatura d’artista, Takeshi Kitano, unica e irriproducibile: dagli esordi nel teatro manzai fino alle interpretazioni per Nagisa Ōshima, passando per la propria esperienza di regista, sceneggiatore, montatore, romanziere e pittore, Kitano ha palesato un’irrequietezza indomita, indole naturale alla distruzione e ricostruzione. Un approccio palingenetico alla materia artistica che lo eleva al ruolo di vero e proprio demiurgo, creatore di mondi tra loro antitetici: questo perché, al contrario di molti suoi colleghi, in oriente come in occidente, il cineasta nipponico non ha mai avuto paura di doversi smentire, cambiando prospettiva dello sguardo al di là di ogni misera accusa di incoerenza.Un percorso che si è fatto forse più evidente nell’ultimo decennio, a partire dal post Zatoichi, ma che in realtà a ben vedere appartiene alla sua poetica espressiva fin dalle prime opere: come intendere, altrimenti, il brusco passaggio in appena un paio di anni dalle timbriche di Violent Cop (che segna nel 1989 il suo esordio dietro la macchina da presa, in sostituzione del maestro Kinji Fukasaku) alla melanconia noir di Boiling Point e al minimalismo melodrammatico de Il silenzio sul mare? La solitamente sottostimata trilogia sulla crisi dell’artista composta da Takeshis’, Glory to the Filmaker e Achilles and the Tortoise, venuta alla luce tra il 2005 e il 2008 aveva di fatto svolto il ruolo del funerale di Kitano: l’ispirazione vacillante e la sterilità espressiva venivano ironicamente poste in primo piano, pur suffragate da un impianto visivo ai limiti dell’abbacinante. Ma, come si suol dire, morto un papa se ne fa un altro… ed ecco dunque l’ennesima risurrezione dell’araba fenice kitaniana, stavolta nelle vesti all’apparenza di un puro ritorno all’origine del proprio cinema. Outrage, presentato nel 2010 al Festival di Cannes, era uno yakuza eiga glaciale, anaffettivo, elegante nella messa in scena ma privo di qualsivoglia segno della presenza autoriale del regista: un oggetto magari anche ammirabile nella sua forma, ma vuoto di senso, volutamente anticlimatico e prevedibile nella struttura narrativa. Reduce da un’autoanalisi pubblica che gli aveva riservato critiche a iosa da parte di una critica del tutto incapace di comprendere il senso del sublime autobiografismo della sua messa in scena, Kitano tornava a mettersi in gioco senza però esporre più nulla di sé.

Il progetto si arricchisce oggi di un nuovo tassello, seguito diretto del precedente: Outrage Beyond approda al Lido di Venezia durante la sessantanovesima edizione della Mostra, la prima del dopo-Müller – che aveva ospitato nel corso delle edizioni da lui curate proprio la già citata trilogia – accolto con una certa freddezza da un pubblico di addetti ai lavori che palesemente non sa più come inquadrare un autore così sfuggente. Chiunque abbia avuto modo di posare gli occhi su Outrage non avrà problemi a riconoscere in questa seconda parte della vicenda un gemello omozigoto: la scelta delle inquadrature – valga per tutte la bella carrellata laterale sul passaggio delle automobili, per esempio –, il ritmo del montaggio, la costruzione narrativa non fanno altro che replicare in tutto e per tutto quanto avveniva nel film di due anni fa. La storia dopotutto riprende proprio da dove si era interrotta, e i personaggi presenti in scena sono più o meno sempre gli stessi: insomma, un sequel classico, privo dell’ardore sperimentale che era auspicabile rintracciare nelle pieghe del film. La prima ora segue i binari arrugginiti di una lunga e per molti versi evitabile spiegazione di quanto avvenuto nel primo capitolo: ci si sofferma dunque sull’oramai defunto Sekiuchi, un tempo a capo della famiglia di yakuza più potente di Tokyo, e si riannodano i fili delle varie vicende legate allo scontro tra famiglie che vede opporsi la capitale con Osaka. Kitano opera un ribaltamento completo nella struttura rispetto al precedente film: laddove in Outrage a un’orgia di violenza faceva seguito la ricerca della dialettica, in Outrage Beyond la prima verbosa parte viene smentita (o, per meglio dire, completata) da un crescendo finale in cui la vendetta di Otomo – il personaggio interpretato proprio da ‘Beat’ Takeshi – prende corpo.

In uno yakuza eiga privo di elementi strutturali degni di un particolare interesse – per donare reale spessore al cliché elevato a potenza Kitano avrebbe forse fatto meglio a ripassarsi il curriculum artistico di un capostipite come Don Siegel – è nella forma che è possibile rintracciare i germi della creatività di Kitano: in questo senso la seconda metà del film vive di squarci di altissimo cinema, come evidenziano la sequenza delle palle da baseball (di una violenza dolorosa quanto a suo modo parossistica) e soprattutto l’accoltellamento alle slot machine. Il cinema di Kitano non sta sicuramente attraversando la sua fase più florida, ma sarebbe sciocco non riconoscerne i pregi evidenti: in attesa che anche questo aspetto di Kitano svanisca – probabile però che prima regali quantomeno la terza parte di questa saga – per lasciar posto a qualcosa di nuovo, e inaspettato. Perché Kitano, da sempre, vive oltre l’oltraggio, al di là del bene e del male, ed è anche questo a renderlo indispensabile.

Info
Outrage Beyond sul sito della Mostra del Cinema di Venezia.
Il trailer originale di Outrage Beyond.
Il sito ufficiale di Outrage Beyond.
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