Pan

Prima e unica regia cinematografica per Harald Schwenzen, importante attore di cinema e teatro in Norvegia, che porta sullo schermo Pan, un romanzo dello scrittore nazionale Knut Hamsun, riuscendo a infondervi tutta quella mistica della natura, quel forte senso panico e romantico della concezione panteistica dell’autore.

Il buon tenente

Il tenente Glahn è un eremita che conduce una vita frugale e spartana in una baita, in un villaggio di pescatori, cibandosi della selvaggina che lui stesso caccia, con l’inseparabile cane Esopo. Una tormentata storia d’amore con due donne, Edvarda ed Eva condurrà a un tragico epilogo. Il tenente si imbarcherà verso paesi tropicali. [sinossi]

Paesaggi idilliaci, scene monumentali tra fiordi, laghi, mare, scogli, boschi. Superfici d’acqua che riflettono il mondo sovrastante, e che si increspano, in un cielo terso. Glahn vive nutrendosi di pernici e uccelli che caccia con il suo fucile sempre in mano, vivendo in una spartana baita di legno, dalle pareti ricoperte da pelli, uccelli imbalsamati, fucili appesi. Il cane Esopo, nomen omen, è il suo tramite con il mondo naturale e arriverà a ucciderlo proprio quando le condizioni della sua vita gli faranno prendere atto che il legame con quel mondo è ormai rescisso. Siamo quindi in quella concezione del cinema muto che si fonda su spazi aperti e non si chiude in interni (in questo film pochissimi). All’opposto del Kammerspiel e più vicini a Murnau. Glahn potrebbe poi essere un esempio di uomo herzoghiano.
Nella sua relazione con Edvarda, figlia di una famiglia di mercanti, si crea una contrapposizione netta tra classi sociali, viste attraverso due approcci diametralmente opposti con il mondo naturale. Per Glahn la natura è fonte di sostentamento e vita, per la borghesia è semplicemente un rifugio per gitarelle in barca, petit déjeuner sur l’herbe, picnic sugli scogli. Glahn si trova fuori posto in quell’ambiente di yuppie, dove ci si saluta alzando il cappello, scusandosi spesso pensando di avere un comportamento inadeguato. Spesso rimane in disparte in quegli happening. Il disagio lo porta a reazioni convulse, comportamenti irrazionali, come buttare la scarpa di Edvarda in acqua fino al gesto assurdo di spararsi alla gamba. All’opposto di Edvarda è la contadinotta Eva, con cui Glahn non può che provare maggiore empatia. Una figura sensuale e carnale, e il regista arriva a comporre l’immagine allusiva del cane Esopo e del cavallo di lei insieme, lasciati soli dai due personaggi.

Schwenzen costruisce il racconto su flashback, scanditi da viraggi diversi, a incastro e narrati in voce (fatta ovviamente di intertitoli) over. E costruisce la storia cristallizzando la situazione in successivi tableau vivant, momenti di stasi contemplativa. Si comincia con l’uomo immerso nella natura, con la silhouette di Glahn che si staglia imponente sul paesaggio circostante. Come non pensare a Hias all’inizio di Cuore di vetro? E questi quadri arriveranno a fissare l’immagine di Glahn ed Edvarda, lui in casa zoppicante, lui sulla roccia panoramica, Eva con lui che lo accudisce.
Si arriva quindi all’epilogo coloniale, raccontato ancora con una narrazione interna, nel flashback dal compagno d’avventura di Glahn che rappresenta il suo doppio. Interpretato dallo stesso Schwenzen, fratello dell’attore che impersona Glahn, Hjalmar Fries-Schwenzen. Ancora un paesaggio naturale, esotico, agli antipodi di quello della prima parte, fatto di deserte e palme, tigri e pantere. Girato in Algeria con un imponente sforzo produttivo per l’epoca (come non pensare ancora una volta a Herzog?). Un cielo diverso, una luce diversa, un altro clima. Ma con richiami alla prima parte, vedi i due che si cibano di uccelli cacciati. E ancora la vicenda ruota attorno a una figura femminile, una sensuale donna berbera. Un epilogo tragico. Raccogli quello che semini: questo ne è l’epitaffio.

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