Noi e la Giulia

Noi e la Giulia

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Con il suo terzo film da regista, Noi e la Giulia, Edoardo Leo semina qualunquismo e raccoglie disastri: registici, narrativi e recitativi.

Il ritorno della campagna

Diego, Fausto e Claudio sono tre quarantenni in fuga dalla città e dalle proprie vite, che da perfetti sconosciuti si ritrovano uniti nell’impresa di aprire un agriturismo. A loro si unirà Sergio, un cinquantenne che ancora crede nel comunismo, ed Elisa, una giovane donna incinta e decisamente fuori di testa. Ad ostacolare questo sogno arriverà il camorrista Vito venuto a chiedere il pizzo alla guida di una vecchia Giulia 1300. Questa minaccia li costringerà a ribellarsi… [sinossi]

Non riteniamo di doverci necessariamente annoverare tra i detrattori di Edoardo Leo, tutt’altro. I suoi precedenti film da regista (Diciotto anni dopo e Buongiorno papà) avevano, al di là di alcuni evidenti difetti, degli elementi positivi e interessanti. Allo stesso tempo il cinema da lui interpretato e a volte anche scritto (La mossa del pinguino, ad esempio, film d’esordio di Claudio Amendola; oppure Ti ricordi di me?, seconda regia di Rolando Ravello) appare tutt’altro che disdicevole rispetto alla media delle commedie italiane. In particolare, la comunanza d’intenti e di vedute tra Claudio Amendola, Rolando Ravello, Massimiliano Bruno e lo stesso Edoardo Leo ci sembra che stia connotando un diverso modo di concepire la commedia, con un approccio un minimo più realistico e decisamente più vivace rispetto al precedente filone, sempre romano, ma guidato da Fausto Brizzi.

Tutto questo discorso però rischia seriamente di arenarsi di fronte a un film come Noi e la Giulia. Il terzo lungometraggio da regista di Edoardo Leo conferma in primis una preoccupante tendenza del recente cinema italiano, vale a dire quella della riscoperta della vita di campagna e della correlata fuga dalla città. Già Benvenuti al Sud aveva indicato la strada, ma negli ultimi tempi la questione si è fatta sin troppo evidente: si pensi solo a Una piccola impresa meridionale di Rocco Papaleo, ad Andiamo a quel paese di Ficarra e Picone, a Si accettano miracoli di Alessandro Siani, fino – perché no? – allo stesso Maraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani. Sono tutti titoli che per un motivo o per l’altro tendono a una riscoperta degli agi e delle qualità di una vita bucolica dove poter respirare aria pulita e magari riuscire a mettere in pratica le proprie ambizioni piccolo-imprenditoriali e piccolo-borghesi. Inutile aggiungere che una tendenza di ripiegamento, di riflusso e di regressione come questa fu una delle caratteristiche precipue del cinema che si girava negli anni del fascismo. Ed è perciò importante sottolineare che quando la cinematografia di un paese rifugge le questioni irrisolte di una società e i conflitti sociali che in essa si agitano, preferendo piuttosto la quiete di un campo di grano e la comodità di redenzioni campagnole, allora forse qualcosa non va.

Ma, sempre in riferimento a Noi e la Giulia, al di là di una dimensione più generale, c’è anche da affrontare una questione più precisa, che va ad inficiare il discorso stesso del film e dimostra come l’aspirazione bucolica abbia già finito le sue velleità creative per rinchiudersi in una reiterata e inerte coazione a ripetere. Il film di Edoardo Leo ha infatti troppi punti in comune con Una piccola impresa meridionale e, ancor di più, con La nostra terra di Giulio Manfredonia. In particolare, rispetto a quest’ultimo titolo, Noi e la Giulia si va a delineare come una specie di clone inatteso e non necessario. Sia nel film di Manfredonia che in quello di Edoardo Leo infatti vi è il tema di un terreno da riqualificare contro le intrusioni della mafia, vi è un gruppo di personaggi che sceglie questa finalità per poter restituire dignità ai rispettivi percorsi biografici e vi è un personaggio (in Manfredonia era interpretato da Rubini, qui da Buccirosso) che ha stretti legami con la criminalità organizzata e che solo dopo un lungo travaglio riesce a scegliere la parte giusta in cui schierarsi.
Rispetto a Manfredonia dunque Edoardo Leo arriva in ritardo con la commedia agreste declinata in versione impegnata e all’acqua di rose e, soprattutto, realizza un film molto più sconclusionato e, persino, qualunquista. Se, infatti, La nostra terra – per evitare di essere ‘accusato’ di travestirsi da film militante – pagava il dazio al politicamente corretto (dalla storia d’amore tra i protagonisti alle caratterizzazioni secondarie rispettose delle minoranze etniche e sociali) ma lo faceva senza calare le braghe, Noi e la Giulia invece, tutto teso a dipanare un discorso buonista e anti-conflittuale, appare grossolanamente ideologico. Inaccettabile per esempio appare la caratterizzazione di Claudio Amendola come espressione di un passato di militanza di sinistra, inaccettabile perché (purtroppo) fuori dal tempo e perché questo macchiettismo è fatto con superficialità, tanto che Amendola non parla come un ex-sessantottino (come forse era nelle intenzioni), ma come se stesse declamando a voce alta e senza convinzione la prima pagina dell’Unità degli anni Cinquanta. Un approccio siffatto fa cadere immediatamente la credibilità spettatoriale, tanto più se il livello ideologico è maldestramente controbilanciato dal personaggio di Edoardo Leo che, invece, sarebbe il fascista del gruppo. E se ci si vuole dire che fascisti e comunisti (in un momento storico, tra l’altro, in cui quasi nessuno si dichiara più tale) si devono alleare per combattere la camorra, allora non ci si può che ribellare davanti a questo melenso qualunquismo, a questa riproposizione di un “governo di unità nazionale” in un microcosmo agreste che dovrebbe essere rappresentativo della società, a questa idea fintamente ingenua degli italiani brava gente, a questa descrizione del piccolo mondo antico da riscoprire e da sottrarre alla criminalità organizzata, un mondo che allo stesso tempo è pervaso da atavico maschilismo, ecc.

In tutto questo Edoardo Leo fallisce anche le dinamiche narrative, riempiendo il suo film di personaggi che rischiano di sovrapporsi l’uno all’altro. Il caso più eclatante è proprio quello di Luca Argentero (a cui è affidata una pseudo-moralista e odiosa voice over) che finisce per fare il paio con il personaggio interpretato dallo stesso Edoardo Leo. E poi, narrativamente, appare grottesca, insensata e ingiustificata la scelta, imposta dal personaggio di Amendola, di rinchiudere i camorristi in cantina invece di andarli a denunciare alla polizia. Senza parlare della recitazione zoppicante di tutti gli attori in scena (ad eccezione di Anna Foglietta e di Stefano Fresi), della volontà di inzeppare il film di star nostrane invece che di costruire dei veri e propri personaggi, della scelta di identificare i cattivi con i napoletani e via dicendo.
Costruito su gag trite e ritrite, basato su un umanesimo di seconda mano (si veda in tal senso l’invenzione della storia dell’auto Giulietta da cui proviene una misteriosa musica), girato a tratti in maniera dilettantesca (si pensi in particolare alla sequenza alla fermata della metro Piramide), Noi e la Giulia vale sia come primo eclatante passo falso della carriera di Edoardo Leo, sia come clamorosa battuta d’arresto nel terreno della commedia neo-romana. E a questo punto si deve cominciare seriamente a dubitare sulle possibilità che una major come la Warner Bros. (che da tempo ha scelto di sostenere e distribuire un certo prodotto italiano) possa influire positivamente sulle dinamiche del nostro cinema, il cui destino sembra a ricorrenze sempre più ravvicinate pronto a volgere verso la catastrofe.

Info
Il trailer di Noi e la Giulia.
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