Tiempo de morir

Tiempo de morir

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Cannes Classics riporta alla luce l’esordio alla regia di Arturo Ripstein, Tiempo de morir, con tanto di sceneggiatura di Gabriel García Márquez; un western che mina la classicità con una regia nervosa e la lettura psicologica dei personaggi.

Nel nome del padre

Juan Sayago torna al suo villaggio dopo aver trascorso diciotto anni in prigione per aver ucciso in duello un allevatore di cavalli. Il suo desiderio è quello di tornare a una vita normale per ricostruirsi un futuro, ma il destino gli ha preparato una sorpresa amara: i figli dell’uomo che ha assassinato, due giovani valorosi, sono decisi a vendicare la morte del padre… [sinossi]

Fino a pochi giorni fa Tiempo de morir era un film pressoché invisibile, difficile da recuperare anche per i cinefili di stretta osservanza, e sconosciuto perfino a molti appassionati cultori del cinema di Arturo Ripstein, qui al suo esordio. Basterebbe questo dettaglio a rendere merito alla presenza di una sezione come Cannes Classics. L’accredito stampa di un festival cinematografico può occupare il prezioso tempo di pausa tra un film e l’altro nei modi più disparati: mangiando, dormendo, facendo una salutare passeggiata. Da questo punto di vista Cannes offre una possibilità in più, spesso la migliore, con la selezione dei “classics”, film del passato riscoperti e offerti agli occhi del pubblico. La salle Buñuel, deputata a ospitare la sezioni, si riempie (eufemismo, perché l’ingresso è assicurato anche al più pigro dei cinéphile) e sullo schermo scorrono immagini di piccoli e grandi cult o di opere semisconosciute, tutte con un minimo comun denominatore: perle che per un motivo o per l’altro si sono smarrite nel marasma del cinema mondiale.
Ha tutte le debolezze dell’esordio, Tiempo de morir: una certa schematicità strutturale, una recitazione non sempre all’altezza della situazione, l’occhio del regista che vibra di immagini già vissuto, amate, metabolizzate e idolatrate. Ma è anche un’opera preziosa, a suo modo quasi irriverente verso il genere stesso di riferimento.

La prima inquadratura offre già l’elemento di discontinuità cui si faceva cenno: un uomo esce da una porta che si richiude alle sue spalle, lasciandolo all’esterno, celato in buona parte alla macchina da presa che è rimasta da questo lato del muro. Se l’immagine non sfugge a un ruolo strettamente narrativo (Juan Sayago esce di prigione dopo diciotto lunghi anni, scontati per aver ucciso un uomo in duello), è impossibile per la mente non vagare dalle parti del sontuoso incipit di Sentieri selvaggi di John Ford, apice forse irraggiungibile del western classico. Della classicità del genere Tiempo de morir possiede alcuni elementi, ma li mette tutti in gioco a favore di un’interpretazione mai storica ma sociologica e ancor più psicologica. In un mondo maschile, in cui l’uomo è motore unico della storia e della società – le donne sono tutte al chiuso nelle case, non hanno accesso neanche allo spazio esterno, non possono essere “credibili” en plein air –, Juan Sayago, i due figli di Trueba e l’amico di un tempo dell’ex galeotto combattono una guerra di schermaglie priva di un reale costrutto. Galletti che si sfidano gli uni contro gli altri alla ricerca di una soddisfazione (storica, mai legata alla contemporaneità) impossibile, sono la rappresentazione anti-eroica dell’impotenza maschile. Dai loro atti non può germinare nulla, la loro virilità è sterile come il brullo terreno in cui vive il villaggio, e dove solo tre elementi distinguono il valore di un uomo: la pistola e la capacità di usarla, il cavallo, la donna da possedere più che da conquistare.

Al brillante script di Gabriel García Márquez fa da contraltare la nervosa e a tratti geniale regia di Ripstein, che mostra le proprie qualità soprattutto quando utilizza il piano-sequenza attribuendogli un valore emotivo oltre che di messa in scena. Movimenti eleganti e ariosi che diventano di colpo avvicinamenti a macchina a mano, sbalestrati e (volutamente) incompiuti, come nella sequenza che svela l’ingresso in scena di Mariana, l’amore di un tempo di Juan oramai vedova e con un figlio – il bambino è l’elemento sociale ancor più recluso, perché maschio senza ancora le uniche qualità intrinseche del maschio. Una messa in scena che sorprende soprattutto per alcune scelte, secche e in grado di smitizzare l’epopea western senza bruciare pubblicamente il feticcio: si prenda il duello conclusivo, esempio perfetto di come Ripstein sappia maneggiare il genere senza mai deriderlo ma allo stesso tempo senza subirne il peso.
Una riscoperta essenziale, per un’opera senza dubbio “minore” (il proseguo della carriera porterà Ripstein a ben altre vette) ma carica di fascino, e pronta sempre a rischiare la strada più impervia.

Info
Tiempo de morir sul sito del Festival di Cannes.
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