Palombella rossa

Palombella rossa

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Il rettangolo d’acqua di una piscina come non-luogo nel quale scandagliare senza pietà quarant’anni di politica comunista, e della vita di un uomo. Palombella rossa segna il punto di non ritorno della prima fase del cinema di Nanni Moretti, ed è uno dei capolavori del cinema italiano degli ultimi trenta anni.

Le merendine di quando eravamo bambini

Michele Apicella, funzionario del PCI, in seguito a un incidente si ritrova senza memoria. Il film si sviluppa intorno a una partita di pallanuoto, la finale contro l’Acireale, durante la quale Michele cerca di ritrovare la memoria perduta attraverso ricordi confusi e una realtà che non riesce più a comprendere… [sinossi]

Palombella rossa è il punto di non ritorno della prima fase della carriera registica di Nanni Moretti. Lo è, come si è scritto un po’ dappertutto, perché Moretti “uccide” l’alter ego che lo aveva accompagnato fino a quel momento, Michele Apicella, ma non solo, o non necessariamente per questo. Il disvelamento della maschera-Michele, che si infrange sull’urlo “Acireale!” della tribuna, o forse su quel rigore che non si sa se tirarlo a destra o a sinistra, è anche il momento della riappropriazione di sé, di un autobiografismo non più debordato nel “genere” (l’horror nel finale di Sogni d’oro, il thriller in Bianca e il film sportivo, pratica assai poco abituale nella filmografia italiana, in Palombella rossa) ma compiuto nella quotidianità. Si chiude la fase Apicella, per Moretti, e si apre quella diaristica che sarà la base portante delle incursioni dietro la macchina da presa negli anni Novanta, con i lungometraggi Caro diario e Aprile, ma anche con lavori come Il giorno della prima di Close Up; una terza fase, quella che prende l’aire con La stanza del figlio e arriva al momento a Mia madre, cercherà di trovare il punto di contatto tra le prime due, scavalcando l’autobiografismo attraverso anche la presenza solo occasionale di Moretti nei panni del protagonista.
Si decide di tralasciare, in questa sede, qualsiasi riferimento al trattamento ricevuto da Palombella rossa al momento della sua prima apparizione, in particolar modo evitando di tornare una volta di più sullo sgarbo (per usare un termine gentile) fatto al film dalla Mostra del Cinema di Venezia all’epoca diretta da Guglielmo Biraghi, “colpevole” dunque come il Gian Luigi Rondi del gran rifiuto mosso a David Lynch per Velluto blu a causa dei nudi di Isabella Rossellini, irrispettosi – a dire di Rondi – della memoria storica del babbo, e dunque di tutto il cinema italiano nel suo complesso. Meglio calare un velo pietoso, più o meno lo stesso che uno stordito Apicella, ancora alle prese con una fastidiosa amnesia che gli impedisce di ricordare chi è, cosa fa e soprattutto perché lo fa, fa scendere davanti a molti dei suoi interlocutori, per lo più autistici almeno quanto lui, se non di più.

Ci sono quattro frasi, tra le molte che affastellano un film dialogico e inventivo allo stesso tempo, nevrotico come forse nessun altro nella carriera di Moretti e allo stesso tempo tragico come nessun altro, seguendo le quali, unendo invisibili e ideali puntini, si può rintracciare il senso profondo e intimo di Palombella rossa. Eccole, segnalate una di seguito all’altra indicando quale personaggio le pronuncia:

Noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi. Mamma! Mamma, vienimi a prendere! (Michele Apicella)
Ti ricordi Michele, ti ricordi? (Amico di Michele, interpretato da Fabio Traversa, ad libitum)
Ma lo sa che c’è gente che ci scrive, e noi non rispondiamo mai? Però c’è gente che ci scrive! (i due “importuni”, interpretati da Alfonso Santagata e Claudio Morganti)
Le merendine di quand’ero bambino non torneranno più! I pomeriggi di maggio! Mamma! Mia madre non tornerà più! Il brodo di pollo quand’ero malato, gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze… (Michele Apicella)

Quattro frasi, e per ogni frase lo sprofondo in un angolo della piscina diverso, in un lato diverso della personalità di Apicella, in un lato diverso della personalità sociale e politica di un Partito Comunista già oramai alle fasi conclusive, schiacciato dal peso della morte “in scena” di Enrico Berlinguer, oramai lontano da vaghe lusinghe sovietiche e costretto a quell’eurocomunismo che rompeva gli argini dell’asse rivoluzionario o supposto tale per avvicinarsi al riformismo socialdemocratico. Apicella non ritrova più il Partito, accanto a sé, non capisce più le regole del gioco politico, non sa più perché si sta andando incontro a una scelta che cambierà tutto, senza che si capisca davvero dove sta andando il mondo. La mancanza di prospettive è in realtà la mancanza di una propria posizione politica, fisica (in acqua da principio Michele è schiacciato dagli avversari, e tenta solo velleitarie “palombelle”, facile preda di un portiere che ha capito in anticipo, come le forze reazionarie, la direzione, e gli basta tenere ferma la posizione in porta per bloccare il pallone) ma anche concettuale: “il mio orologio è posizionato sull’ora di New York”, lo incalza il giornalista in una tribuna politica che riaffiora nella memoria, “e il suo su quale ora è posizionato?”. Il primo a non saperlo, ovviamente, è proprio Apicella, che si rifugia nel canto, nell’amato Battiato di E ti vengo a cercare, quel sentimento popolare che nasce da meccaniche divine. Popolare e divino. Comunismo e cattolicesimo. Fede atea contro fede religiosa. Ci sono santoni che guardano la finale di pallanuoto cercando di incidere, guru, allenatori mitici. C’è il popolo, attorno al rettangolo d’acqua, ma anche la meccanica divina. E Michele non la vede, non la percepisce, continua con coerenza a rifiutarla (“io sono felice che tu esisti, ma tu sei felice che io esista?” è la domanda; la risposta è un sonoro e prolungato “noooo!”). Per questo, anche per questo, lui/loro sono uguali agli altri, ma sono diversi, ma sono uguali, ma sono diversi. La questione morale incalza, e si può solo far ricorso alla memoria della mamma. Vienimi a prendere, mamma!
La memoria, spina nella testa di Moretti in ogni suo film, e ancor più la memoria della famiglia (tema centrale nel corso dei decenni, da La messa è finita a La stanza del figlio e Mia madre), è in maniera fin troppo palese il nucleo che smuove l’intera vicenda. La memoria persa, personale e politica, e la memoria di un passato lontano. Per l’unica volta nella sua filmografia Moretti rifiuta il suo tempo e si rifugia, di quando in quando, in un’infanzia fatta di sofferenze – il piccolo Michele interpretato da Gabriele Ceracchini ha sempre il broncio, non sorride mai se non in un’unica occasione su cui si tornerà in seguito – ma comunque elevata al di sopra delle miserie umane. Un tempo in cui il conformismo, quello delle madri che in modo quasi seriale asciugano le teste dei propri bimbi dopo l’ora di nuoto, arrivava come un naturale processo, pressoché inevitabile, e al quale non si dava particolare peso.

“Ti ricordi, Michele, ti ricordi?”. Già, ti ricordi? E cosa ricordi? Palombella rossa è un viaggio nella psiche di un uomo che si fa incursione nel dolore collettivo di una sinistra sbandata, di un comunismo deprivato delle proprie necessità collettive. Apicella in quella piscina è solo. Intorno a lui una folla ostile, una massa che spera solo nel suo fallimento, in un tiro sballato, in un’azione scomposta. Dove sono i compagni? Dove è il Partito? Non pervenuto, per citare i reggiani Offlaga Disco Pax, band che sulla memoria personale e collettiva ha costruito tutto il proprio immaginario. Così Apicella può fare il pugno chiuso solo per salutare un compagno che non è mai esistito, l’Omar Sharif de Il dottor Zivago che stanno passando nella televisione accesa al bar; un compagno che, per di più, farà una bruttissima fine, vissuta (quella sì) in collettiva empatia da tutti gli spettatori della partita. Ma Zivago cade a terra, dopo essere sceso in fretta e furia dal tram per inseguire l’amata che non si accorgerà mai di lui, e morirà. Gli spetttori, frustrati e delusi, possono solo tornare a quel che facevano fino a pochi momenti prima. Non esiste trasformazione. Non esiste evoluzione. Solo reiterazione infinita di un unico, stancante, schema. Si può anche interrompere il match, tra fellinismi platealmente autoironici – ma non privi di grande finezza estetica, alla faccia di chi ha sempre rimproverato a Moretti di non avere il senso della messa in scena – per ascoltare I’m on Fire di Bruce Springsteen, ma appena l’ultima nota sarà evaporata nell’aria estiva la folla tornerà a intonare, monotono e angosciante, il grido “Acireale!”.
Vive di tante, piccole ripetizioni, Palombella rossa, come se la memoria dovesse tornare a strappi in Apicella e che quindi tutto fosse costretto a reiterarsi, a riformularsi ogni volta. Dal “ti ricordi, Michele” a “Marca Budavari!” (unica parvenza di schema che l’allenatore, interpretato da un maiuscolo Silvio Orlando, sembra saper trasmettere ai suoi atleti), da “Le merendine di quand’ero bambino non torneranno più” a “Lo sa che c’è gente che ci scrive, e noi non rispondiamo mai”, Palombella rossa è una sinfonia nevrastenica, una polifonia di disturbi della personalità, la prima deflagrante messa in scena di una nazione che ha smesso una volta per tutte la dialettica preferendole la comoda e narcisistica coperta della declamazione. Nello scenario rappresentato da Moretti con una grandissima dote inventiva – Palombella rossa è un florilegio di situazioni surreali, entr’acte musicali, divagazioni oniriche, memorie quasi sempre bislacche o improbabili – l’Italia è già quella che di lì a pochi anni prima si indignerà contro le indagini di Tangentopoli, e poi consegnerà lo scettro al declamatore per eccellenza di quei tempi, Silvio Berlusconi.

Ma Palombella rossa è ancora completamente chiuso nel recinto della sinistra, quella parlamentare e quella extraparlamentare, quella delle sezioni e quella del Palazzo; solo pochi mesi più tardi Moretti se ne andrà di sezione in sezione per registrare gli umori della base del PCI nei confronti de La Cosa che prenderà poi il nome di Partito Democratico della Sinistra, PDS. Ma è già compiutamente politico lo sguardo che Moretti rende organico spezzettando in modo frenetico e convulso la narrazione, riducendola a orpello in un universo che ha oramai perso qualsiasi idea di linearità, e non può che procedere tra balzi in avanti e indietro, interviste ai limiti del ridicolo (la celeberrima sfuriata che parte dalla definizione di “matrimonio a pezzi”), incontri fuggevoli con la figlia che sta preparando l’esame di terza media, disquizisioni di teologia e via discorrendo. La verità, terribile e grottesca, è che Michele Apicella vorrebbe solo poter giocare, senza troppe letture ulteriori. Gioco per il gioco, come quello che improvvisa con la figlia (“tre colpi di testa, dai!”), o come quello che inscena con dei bambini sconosciuti, facendogli le linguacce mentre sta guidando, prima di andare a sbattere. L’incidente che rimuove la sua memoria è dunque frutto di un gioco, di uno scherzo, di una boutade improvvisata per strada. Non si può improvvisare, è vietato lo sberleffo. C’è la logica, c’è l’ideologia, c’è la prassi. Solo questo conforma l’identità. Tutto il resto è inutile. Peggio, è dannoso.
Apicella è stanco, oramai. In poco più di un decennio si è mosso nel movimento “controculturale”, ha cercato idee per la sua opera seconda (“La mamma di Freud”, in Sogni d’oro), ha fatto i conti con il passato nei modi più drastici e dolorosi. Ora muore. Muore. Urlava “non voglio morire!” trasformato in licantropo solo pochi anni prima, si ritrovava muto di fronte a una donna in depressione. Ora muore, nella pantomima di un quadro della propaganda sovietica o cinese. Come tutti gli altri personaggi cerca di allungare la mano verso quel Sol dell’Avvenire che è lì, è materiale. Sì, è di cartapesta, per carità. Ma esiste. Tutti grottescamente allungano la mano, e lo fa anche l’Apicella adulto. Si protende. Solo l’Apicella bambino, incastrato nell’ultima ed estrema dichiarazione di conformità del mondo che lo circonda, sghignazza. Non trattiene le risate, lui. “Ma io volevo veramente tirare a sinistra!” si difende Michele con il portiere che gli ha appena parato il rigore, facendo perdere la finale a lui e ai suoi compagni. “Ma io volevo veramente tirare a sinistra!”. Palombella rossa è un’opera da rileggere e rivedere con cadenza regolare, perché è sempre presente anche quando sembra passata. Forse soprattutto quando sembra passata.

Info
Il trailer di Palombella rossa.
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