Seijun Suzuki, o del cinema eretico

Seijun Suzuki, o del cinema eretico

Lo scorso 13 febbraio è morto in un ospedale di Tokyo Seijun Suzuki; regista eretico tra gli eretici del cinema giapponese, ha legato il suo nome ad alcuni film di culto, da Pistol Opera a Elogio della lotta, fino al capolavoro La farfalla sul mirino che segnò il suo licenziamento in tronco da parte della Nikkatsu, con tanto di sit-in e manifestazioni in suo favore da parte della comunità artistica nipponica. Riscoperto come maestro nel corso dei decenni, è in realtà tuttora un nome in gran parte ignoto, così come la sua ricca e sempre attuale filmografia.

Il saggio su Seijun Suzuki rielabora in parte quello inserito all’interno di Nihon Eiga. Storia del cinema giapponese dal 1945 al 1969, volume collettaneo a cura di Enrico Azzano e Raffaele Meale.

Tra i molti eretici svezzati all’interno dell’industria cinematografica giapponese, nessuno è mai stato eretico quanto Seijun Suzuki; non Shūji Terayama, gran maestro dell’avanguardia, né Nobuhiko Obayashi, e nemmeno i contemporanei Takashi Miike o Sion Sono, che pure possono essere considerati a ragion veduta due nipotini ideali di Suzuki, animati dalla stessa furia iconoclasta. Sullo stesso piano può essere posto forse solo Kōji Wakamatsu. Ma nulla e nessuno, è il caso di ribadirlo, potrà mai eguagliare il percorso artistico di Suzuki, che all’apice della fama, con un contratto firmato con la Nikkatsu, venne licenziato in tronco per aver diretto un film incomprensibile. Sì, fu proprio questo l’aggettivo utilizzato dal presidente della Nikkatsu Kyūsaku Hori, nel dare spiegazioni a due amici del regista che chiedevano lumi sul licenziamento di Suzuki. “Non abbiamo bisogno alcuno di registi che girino film incomprensibili”. Chiaro. Lapalissiano. È il 26 aprile del 1968, quasi cinquanta anni fa. La grande produzione nipponica, nel cuore del decennio caldo giapponese, con rivendicazioni politiche in corso, grandi manifestazioni e primi sommovimenti brigatisti (la Nihon Sekigun, nota in Italia come Armata Rossa Giapponese, vedrà la luce nel 1971, a seguito della scissione dalla Lega Comunista Giapponese), si disfà in fretta e furia di un regista incontrollabile, che sfrutta il genere per eccellenza del momento – il film di yakuza – per guardare diritto negli occhi la società giapponese, protesa con slancio innaturale verso il capitalismo eppure ancorata a un codice a tratti archetipico, a tratti solamente reazionario. La Nikkatsu dopotutto era in crisi nera, e aveva accumulato oltre un miliardo di yen di debiti: Suzuki era uno dei registi capofila, con uno stipendio adeguato alla sua posizione. Tutti elementi che contribuirono ad accelerare la sua fuoriuscita dalla casa, che ebbe così modo di liberarsi di una figura ingombrante e di uno stipendio altrettanto “di peso”.
La storia è nota, e tutti gli appassionati di cinema giapponese sanno come ad accogliere su di sé la “colpa” della fine dei rapporti tra Suzuki e la Nikkatsu fu La farfalla sul mirino (Koroshi no rakuin); uscito nel giugno del 1967 in double bill con Buring Nature (Hana o kuu mushi) di Shōgorō Nishimura, La farfalla sul mirino venne disertato al botteghino. Lo stile di Suzuki, che sfruttava una storia basica di infiniti duelli per ragionare sull’ellissi, e sulla ridefinizione totale di quadro cinematografico, venne rifiutata dal pubblico di massa. Per di più la critica giapponese si scagliò contro il film, accusato di dare una visione caotica della società e per questo di rinfocolare gli istinti anarcoidi delle giovani generazioni. Messo all’indice, e non più in grado di garantire successo al box office, Suzuki divenne il capro espiatorio della Nikkatsu, che se ne disfece donandogli però una visibilità inattesa, e creando una protesta collettiva all’interno della gilda degli autori. Nulla di così stupefacente, comunque, perché anche oggi è triste quanto inevitabile constatare come La farfalla sul mirino sarebbe additato dal grande pubblico, e probabilmente rigettato dalla stessa critica che l’ha poi negli anni trasformato in un santino da esporre per dimostrare la propria capacità di lettura. Suzuki, come scritto, denunciò l’interruzione illegale del proprio contratto, e il contenzioso legale si protrarrà fino al dicembre del 1971 [1], nonostante l’intervento da paciere – del tutto inefficace – di Heinosuke Gosho, all’epoca presidente dell’Associazione dei Registi Giapponesi. A rivedere ora tutto quel che accadde in quei furibondi anni, con Suzuki difeso a spada tratta da colleghi come Nagisa Ōshima, Masahiro Shinoda e Kei Kumai, eletto a vate dai cineclub universitari, bandiera di sit-in di protesta, manifesti programmatici, volantini stampati per la diffusione nelle librerie, è inevitabile provare un senso di nostalgia, e di inadeguatezza. Il cinema era ancora parte integrante del dibattito culturale e politico, in oriente come in occidente – il 1968 è anche l’anno delle manifestazioni parigine contro la rimozione di Henri Langlois dalla direzione della Cinémathèque voluta da André Malraux –, elemento di rottura delle convenzioni, della prassi, dell’abitudine.

Quaranta film aveva diretto Seijun Suzuki in appena un decennio o poco più, da La vittoria a portata di mano (Minato no kanpei: Shori o wagate ni) del 1956 a La farfalla sul mirino; solo otto verranno portati a termine nei successivi cinquant’anni. Sta in questo dato ai limiti del paradossale il senso ultimo della carriera di Suzuki? Sì, e no. Per quanto il dato balzi agli occhi in tutta la sua forza, con il passaggio da iperproduzione a quasi totale mutismo autoriale, sarebbe semplicistico, e anche un po’ sciocco, fermarsi a questo per cercare di comprendere il ruolo di un regista inafferrabile, in grado di sposare le esigenze più automatiche dell’industria quanto di ergersi a difensore di una libertà di pensiero che non accetta di scendere a patti con la prassi.
Tra il 1967 e il 1977, anno in cui torna a dirigere un lungometraggio (Hishū monogatari, vale a dire A Tale of Sorrow and Sadness) Suzuki sembra all’apparenza completamente fuori dal mondo della Settima Arte: in realtà nel periodo che intercorse tra il licenziamento da parte della Nikkatsu e il progressivo reinserimento nel mondo del cinema, il regista si dedicò alla scrittura, partecipò ad alcuni programmi televisivi [2] e prestò la sua professionalità ad alcuni colleghi, interpretando piccoli ruoli in film come I Can’t Wait Until Dark! (Kuraku naru-made matenai!, 1975) di Kazuki Omori [3]. Il mondo del cinema giapponese cambierà progressivamente, e non tornerà più ai fasti degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, un’epoca in cui fieri indipendenti come Nagisa Ōshima, Masahiro Shinoda, Shōhei Imamura, Shūji Terayama, si trovavano faccia a faccia (e fianco a fianco) con registi quali Suzuki, che non avevano alcuna intenzione di abbandonare il sistema industriale non aveva abbandonato il sistema industriale, nel quale aveva iniziato a lavorare fin da subito, assunto dalla Nikkatsu già nel 1954.

Quando esordisce alla regia con La vittoria a portata di mano, il regista utilizza ancora il suo vero nome, Seitarō Suzuki, che userà altre cinque volte nei crediti [4]. Non è un periodo qualsiasi: il Giappone sta uscendo dall’incubo della guerra e dell’atomica, ma anche dal sogno malato di dominare l’Asia. La cultura occidentale è arrivata a colonizzare – ma vi riuscirà solo in parte – e a normalizzare una terra che (è sempre giusto rammentarlo) per secoli aveva scelto l’isolazionismo, seguendo una linea protezionista che non ha eguali nella storia dell’umanità. Il subbuglio che prenderà corpo con le proteste per il patto nippo-americano, e che rappresenta le prime avvisaglie del durissimo ’68 giapponese, è già presente nel culto che segue la pubblicazione nel 1955 de La stagione del sole (Taiyō no kisetsu), controverso romanzo in cui Shintarō Ishihara mette a nudo le pulsioni belluine della gioventù nipponica del dopoguerra, affascinata dal modello statunitense e decisa a ribellarsi una società che la sovrasta e vorrebbe inglobarla. Il cinema non resta a guardare e, dopo aver adattato per il grande schermo il romanzo, dà vita a una breve ma intensa stagione di produzioni focalizzate sull’adolescenza inquieta. Anche Suzuki per la Nikkatsu si adatta alla bisogna, lavorando alacremente e portando a termine in questa primissima fase della sua carriera opere spesso brevi, a volte addirittura al di sotto dell’ora di durata, sempre in bianco e nero e girate con pochi mezzi a disposizione. La Nikkatsu rimane affascinata dalla capacità del regista di trovare una propria via espressiva anche all’interno di sceneggiature non proprio brillanti, e gli sottopone un contratto a lungo termine. In appena undici anni, tra il 1956 e il 1967, Suzuki porta a termine per la Nikkatsu ben quaranta lungometraggi, di cui ventiquattro diretti nei primi cinque anni di attività. Un ruolino di marcia impressionante, che dimostra anche la professionalità di Suzuki, in grado di confrontarsi con tutte le cromature del cinema popolare dell’epoca con personalità: anche dalle sue opere più acerbe traspare, infatti, la volontà di distaccarsi dalla consuetudine per rintracciare vie espressive del tutto originali, lontane dalla prassi produttiva della Nikkatsu. Un desiderio di indipendenza artistica – e di autorialità pura, per quanto all’epoca ovviamente quasi nessuno se ne accorse – che Suzuki ribadisce anche nel corso di una lunga intervista condotta da Shigeikho Hasumi e Kōshi Ueno, e tradotta in italiano nel fondamentale Racconti crudeli di gioventù. Nuovo cinema giapponese degli anni ’60, volume curato da Marco Müller e Dario Tomasi nel 1990, in occasione di una eccellente retrospettiva inserita nei lavori del Festival Cinema Giovani di Torino [5]: “I film della Nikkatsu erano sempre presentati in coppia. Perciò io non volevo che due film risultassero uguali. Se il regista dell’altro film se ne curasse o no, non lo so. Io comunque ci pensavo.”

Com’è ovvio gli esordi si risolvono in un lungo susseguirsi di lavori su commissione, e per quanto la struttura narrativa tenda inevitabilmente a ripetersi, tra gangster sadici, vendette, ambienti legati alla malavita, Suzuki dimostra un interesse particolare per gli anti-eroi, che poi troveranno ancor più peso nel corso della sua carriera. Le insubordinazioni visive che lo renderanno celebre fanno irruzione però solo in modo saltuario, come fossero schegge impazzite ancora incapaci di scalfire fino in fondo il “sistema”. La svolta decisiva avviene nel 1963, grazie a quattro film che incontrano da subito i favori del pubblico e della critica: Bastard (Akutarō), The Woman Sharper (Kantō mushuku), La giovinezza di una belva umana (Yajū no seishun) e Ufficio investigativo 2-3: crepate bastardi! (Tantei jimushu 2-3: Kutabare akutōdomo!). Il primo, pur rientrando ancora nell’ottica dei film giovanilistici tanto cari alla Nikkatsu dell’epoca, con il ventenne Ken Yamauchi destinato a trascinare in sala il popolo degli adolescenti, presenta non pochi elementi di rottura con la struttura classica del genere, e si segnala come la prima collaborazione tra Suzuki e Takeo Kimura, destinato a svolgere il ruolo di art director in tutte le pellicole più importanti del cineasta [6]. The Woman Sharper rappresenta il primo contatto tra Suzuki e i ninkyō eiga, un sottogenere del jidaigeki e del chanbara che focalizza la sua attenzione sulla difficile scelta del protagonista, perennemente in bilico tra l’obbligo morale che lo lega al suo clan di appartenenza (giri) e il dovere dell’amicizia (ninjō): una dicotomia che segnerà di lì a poco anche la nuova faccia del gangster movie nipponico, e che Suzuki mette in scena con un furibondo desiderio iconoclasta. La tradizione viene ripetutamente messa alla berlina, e la sessualità trova una propria materializzazione laddove era sempre stata lasciata in secondo piano, per favorire la centralità dell’elemento maschile nel genere. Ancora più eversivi e compiuti appaiono però Ufficio investigativo 2-3: crepate bastardi! e La giovinezza di una belva umana, due dure incursioni nell’hard-boiled, tratte dai romanzi di Haruhiko Ōyabu e affidate all’interpretazione straniante di Jō Shishido, divo di prima grandezza nel Giappone degli anni Sessanta [7]. Lo stile di Suzuki è già maturo, e possiede quello scetticismo nei confronti della prassi che sarà un tratto distintivo della sua carriera: un regista in grado di dissezionare i generi ai quali si avvicina per innestarvi la propria poetica espressiva. Da un punto di vista estetico si tratta di vere e proprie rapsodie visive, nelle quali la violenza irrompe all’improvviso senza lasciare il tempo allo spettatore di assuefarvisi, mentre tematicamente prende corpo la messa in scena di un’umanità imbastardita, non sempre in grado di incanalare la propria rabbia e destinata a scontrarsi con la società. Un punto di vista anarchico e disilluso che allontana una volta per tutte Suzuki dall’aura in fin dei conti consolatoria e assolutistica di cui era permeata la produzione della Nikkatsu.

Da questo momento in poi Suzuki utilizzerà le sceneggiature che di volta in volta si troverà a maneggiare come fossero una tela bianca, ancora completamente da dipingere: anche le storie più prevedibili o i dialoghi più usurati si trasformano, nelle mani del regista, in frammenti di sperimentazione. La scenografia diventa l’alleato più stretto di Suzuki, e i complessi lavori di Kimura gli permettono acrobazie inusuali e posizionamenti della macchina da presa fuori da qualsiasi schema predefinito: i suoi film pullulano di inquadrature sghembe, che spiano i protagonisti da sotto il pavimento, o si frammentano in frantumi di specchio. Ribaltamento continuo dello sguardo che si fa poesia in movimento, trafiggendo il genere e superandolo a piè pari, a volte addirittura citando le fonti di riferimento al punto tale da appiattirne il significato, come dimostra l’utilizzo spesso volutamente artificioso della retroproiezione nelle sequenze in automobile.
Ma la furia visionaria di Suzuki non cede mai alle lusinghe dell’autocelebrazione: il folgorante incipit di The Flower and the Angry Waves (Hana to dotō, 1964), ellittico delirio di rarissima potenza, non obnubila il vero scopo del film, quello di ritrarre senza compromessi il Giappone sbandato del dopoguerra, all’apparenza indipendente dall’occupazione degli Stati Uniti ma ancora legato a doppio nodo alla politica nordamericana. Il cinema di Suzuki, come tutte le opere d’arte in grado di rintracciare una propria via espressiva staccandosi dalle regole imposte, è anche profondamente politico. Lo dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio Barriera di carne – La porta del corpo (Nikutai no mon, 1964), Storia di una prostituta (Shunpu den, 1965) ed Elogio della lotta (Kenka erejī, 1966).
Barriera di carne – La porta del corpo indaga sulla crisi morale e politica del dopoguerra, scendendo con la macchina da presa fin nei bassifondi di una Tokyo che, come afferma Yumiko Nogawa nel film, “dopo la guerra è diventata una giungla”. Il Giappone di Barriera di carne – La porta del corpo è sconfitto, incapace di riprendersi dal sogno di conquista e costretto a confrontarsi con le miserie della propria decadenza: un Giappone popolato da prostitute, ubriaconi, criminali senza onore, dominato dalla barbarie e dallo squallore. Gli uomini rinfacciano alle donne di aver ceduto il proprio corpo al conquistatore statunitense, ma non possono opporre resistenza quando si sentono controbattere “e allora? Voi avete perso la guerra!”. Suzuki si muove in un territorio rischioso, abbattendo un tabù dietro l’altro e ribadendo la propria filosofia anarcoide. Dalla crisi del dopoguerra Suzuki sposta la propria attenzione alle tragedie del conflitto armato, raccontando in Storia di una prostituta la vita di Harumi (interpretata ancora dalla Nogawa), che sceglie di andare a lavorare in un bordello in Manciuria durante la guerra sino-giapponese per lasciarsi alle spalle il matrimonio del suo amante con una donna che non ama. La descrizione dell’esercito giapponese non lascia spazio a interpretazioni riguardo il punto di vista di Suzuki sull’argomento: un corpo disumano, aggrappato a regole d’onore e rispetto che non riesce neanche a comprendere fino in fondo, che combatte una guerra per il solo gusto del dominio sull’altro. In questo senso il “corpo pubblico” di Harumi acquista anche un forte valore metaforico, simbolo di un popolo giapponese sfruttato e lasciato alla mercé degli eventi dal proprio governo. Il ritratto politico del Giappone trova la sua consacrazione in Elogio della lotta (noto in Italia anche con il titolo Elegia della lotta, con il quale venne trasmesso sul sempre indispensabile Fuori Orario – Cose (mai) viste), dove, coadiuvato dalla sceneggiatura di Kaneto Shindō – ampiamente rivista da Suzuki durante le riprese –, il regista arriva a mettere in scena il tentativo di colpo di stato di reparti militari vicini all’estrema destra del 26 febbraio del 1936: lo stile si fa ancora più rapsodico, e la satira pungente e crudele trova spazio in una storia di “maturazione al contrario”. La guerra, il fanatismo di destra e il desiderio di dominio sono, agli occhi di Suzuki, ridicoli prima ancora che orribili, e devono essere portati sulla graticola, nudi di fronte agli occhi del pubblico: inguainati in ridicole giubbe scolastiche inadatte ai loro fisici e alla loro età, i giovani protagonisti di Elogio della lotta sono scherniti da Suzuki, così come Ikki Kita, il teorico del fascismo nipponico che fu condannato a morte proprio per aver ispirato il golpe del 1936.

Oramai del Suzuki degli esordi, l’instancabile lavoratore pronto a trasformare in immagine qualsiasi sceneggiatura gli fosse stata sottoposta, non rimane che l’ombra: il regista di Elogio della lotta è totalmente padrone del set, come gli autori indipendenti ai quali la critica lo affianca di continuo. In Tattooed Life (Irezumi ichidai, 1965) e Tokyo Drifter (Tōkyō nagaremono, 1966) mina ulteriormente le certezze dello yakuza eiga mostrando gangster deboli, volubili nelle proprie brame, incapaci di gestire il potere e destinati a una fine antieroica, che distrugge l’archetipo narrativo e ne mostra l’altra faccia della medaglia. Ma il guanto di sfida oramai lanciato – forse inconsapevolmente – ai vertici della Nikkatsu trova la definitiva consacrazione ne La farfalla sul mirino, il film che lo porterà al licenziamento. La storia della lotta dei killer giapponesi per scalare un’ipotetica classifica dei migliori, che verrà poi ripresa nel 2001 dallo stesso Suzuki in Pistol Opera (Pisutoru opera), è una dichiarazione di guerra all’establishment cinematografico di rara portata e consapevolezza. Film completamente destrutturato, La farfalla sul mirino è un esempio di pura pop art, ritmato come si trattasse di un’improvvisazione be bop: pur prendendo spunto dalle produzioni occidentali, si distacca completamente dal genere, per affidarsi a una narrazione episodica, carica di sottotesti psicologici e di metafore surreali utilizzate per portare in scena la personalità dei protagonisti della vicenda. Quasi irraccontabile nel plot, La farfalla sul mirino scardina ulteriormente gli schemi produttivi ed estetici contro i quali si era scagliata anche in precedenza la macchina da presa di Suzuki, ed eleva il regista a maestro del genere, innovatore e rivoluzionario, capace di affrontare il cinema popolare con il cipiglio dell’insubordinato, e dare vita a una palingenesi completa delle forme.

La Nikkatsu, consapevole delle eccessive libertà prese dal regista e incapace di ingabbiarlo nella sua struttura societaria, lo licenzia in tronco. Dopo aver diretto quaranta film in undici anni, Suzuki si troverà a portarne a termine appena altri otto nei successivi cinquanta, tralasciando i lavori diretti per il piccolo schermo. Ma si tratterà sempre di film in grado di sconvolgere la prassi, dominati da una libertà totale e avvincente, come Zigeunerweisen (Tsigoineruwaizen, 1980), il già citato Pistol Opera e Princess Racoon (Operetta tanuki goten, 2005).
Subito prima di Zigeunerweisen tocca a A Tale of Sorrow and Sadness, il film che nel 1977 segna il ritorno dietro la macchina da presa di Suzuki; giocando sull’ibrido tra thriller patinato e ossessione sociopatica, Suzuki firma un’opera che pur guardando con insistenza dalle parti di Hollywood – la regia ricorda da vicino il nervosismo sincopato dei dimessi action di Don Siegel – si innesta alla perfezione sul tessuto produttivo giapponese, rivendicando una volta di più lo scettro di autore inclassificabile, libero da qualsiasi condizionamento, in grado di asservire ogni storia al proprio sguardo. La dichiarazione di intenti raggiunge l’apice con Zigeunerweisen, che inaugura la cosiddetta “Trilogia dei racconti dell’epoca Taishō” che troverà compimento nei successivi Kagero-za (1981) e Yumeji (1991): un’epopea sommessa, che racconta gli anni Venti del Giappone tra suggestioni europee e storie di fantasmi, drammi e mélo. Tre opere tra loro completamente distanti eppure legate da un’indole che si muove sottopelle, in moto perpetuo ma mai chiuso in sé, mai stucchevole o ripetitivo. La distanza di Suzuki dall’immobilismo è dimostrata anche agli occhi più ciechi da due film diretti nel 1985, quando il regista ha già più di sessant’anni, la commedia sgangherata Capone Cries a Lot (Kapone ōi ni naku) con Kenichi Hagiwara nei panni del protagonista, e soprattutto Lupin III – La leggenda dell’oro di Babilonia, unica incursione di Suzuki nel mondo dell’animazione, per quanto riguarda i lavori cinematografici, in co-regia con Shigetsugu Yoshida. Princess Raccoon, con il quale si conclude la carriera di Suzuki, è l’epitaffio perfetto: un universo fantastico, che mescola suggestioni cinesi e occidentali (l’idea stessa di “operetta”), e procede a ritmo sfrenato verso la liberazione della mente, del corpo, e di tutto ciò che grava loro attorno.
Non è mai esistito un sistema cinematografico in grado di comprendere fino in fondo la libertà agognata da Seijun Suzuki. Non esisteranno mai molti in grado di seguire davvero le sue orme.

NOTE
1. Il tribunale decise che la Nikkatsu dovesse corrispondere un milione di yen a Suzuki (lui ne richiedeva molti di più); Kyūsaku Hori dovette scusarsi pubblicamente per le espressioni ingiuriose che aveva utilizzato nei confronti del regista e le copie di Elogio della lotta (Kenka erejï, 1966) e de La farfalla sul mirino vennero cedute al Museo Nazionale di Arte Moderna di Tokyo (Tōkyō Kokuritsu Kindai Bijutsukan). Nell’agosto del 1971 la Nikkatsu, già in avviata fase di smantellamento, produsse i suoi ultimi due film negli studi, quindi si dedicò esclusivamente al lavoro sui pinku eiga, diventando la major di riferimento per il sottogenere definito roman porno. Nel 1993 la Nikkatsu dichiarò bancarotta, salvo risorgere a nuova vita negli anni successivi, acqusitata prima dalla Namco e poi dalla Index Holdings.
2. Alcuni dei lavori televisivi di Suzuki sono There’s a Bird Inside a Man (Otoko no naka ni wa tori ga iru, 1969), A Mummy’s Love (Miira no koi, 1970), e Chen Wuchen’s The Nail of the Holy Beast (Chin shushin no shinjū no tsume, 1980).
3. Riacquisito il proprio ruolo all’interno della produzione cinematografica, Suzuki non rinuncerà a qualche sortita davanti alla macchina da presa: lo si può ammirare per esempio nel ruolo del nonno in Cold Fever dell’islandese Friðrik Þór Friðriksson (1995), nell’horror di Shinji Aoyama EM Embalming (1999), e in Blessing Bell di Sabu (2002).
4. Per Pure Emotions of the Sea (Hozuna wa utau: Umi no junjo, 1956), Satan’s Town (Akuma no machi, 1956), The Naked Woman and the Gun (Rajo to kenjū, 1957), Inn of the Floating Weeds (Ukigusa no yado, 1957) e Eight Hours of Terror (Hachijikan no kyōfu, 1957). Nel 1958 assume ufficialmente il nome d’arte Seijun.
5. Di lì a un decennio la kermesse cambierà denominazione, diventando definitivamente Torino Film Festival.
6. Dopo aver esordito, in pieno periodo bellico, per un film di Kōji Shima (Yama sandō, vale a dire Path to the Mountain Shrine, 1942) Takeo Kimura lavorò in centinaia di film, e oltre alla lunga collaborazione con Suzuki ebbe modo di trovarsi sul set con registi quali Daisuke Itō, Teruo Ishii, Toshio Matsumoto, Kinuyo Tanaka – una delle prime donne registe, nonché musa di Kenji Mizoguchi –, Juzo Itami, Masahiro Shinoda, Tomu Uchida, Kei Kumai, Kaizō Hayashi, Yōichi Sai, Koreyoshi Kurahara, Toshio Masuda, Takashi Nomura, Akio Jissōji. Dopo aver diretto il suo primo cortometraggio a 86 anni, nel 2004 con Mugenhōgō: Mugen-sasurai, Kimura ha battuto il record di esordio “più anziano” al lungometraggio, visto che Dreaming Awake (Yume no mani mani è uscito nel 2008, quando il suo autore aveva già compiuto 90 anni. Kimura è poi morto a Tokyo nel 2010.
7. Anche la sua carriera perse però centralità con il flop e le diatribe legate a La farfalla sul mirino.
Info
Il trailer originale de La farfalla sul mirino di Seijun Suzuki.
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