Torino 2008 – Bilancio
La ventiseiesima edizione del Torino Film Festival si è chiusa con un risultato annunciato: Tony Manero, film duro e necessario diretto dal regista cileno Pablo Larraín, era dato tra i favoriti alla vittoria finale fin dalla presentazione del programma definitivo della kermesse sabauda. Ma al di là di questo dato, di tutto si potrà accusare Torino 2008, tranne che di prevedibilità.
La seconda annata del festival targato Nanni Moretti ha preso in contropiede pressoché tutti, ribaltando di netto l’impressione non del tutto entusiasmante che aveva lasciato la scorsa edizione. Se nel 2007 ad alimentare forti dubbi era stato un palinsesto esageratamente normalizzato (almeno a paragone con le scoppiettanti edizioni ideate dalla coppia Turigliatto/D’Agnolo Vallan), con molti dei titoli già in odor di distribuzione e una composizione del fuori concorso che non poteva non far rimpiangere i bei tempi di Americana e Detour, quest’anno torniamo a Roma con la sensazione che ciò che accadde solo dodici mesi fa sia da imputare esclusivamente al caso; dopotutto un periodo di assestamento era fin troppo prevedibile, e l’impressione è che il festival si sia (definitivamente) rimesso in marcia, e nella direzione giusta.
A conti fatti, e lasciate calmare leggermente le acque, siamo convinti che Moretti e il suo entourage (Emanuela Martini, Massimo Causo e Davide Oberto) abbiano sfornato una delle selezioni migliori mai viste a Torino, per varietà e ricchezza della proposta: nel navigare trasversalmente tra le varie sezioni del festival, abbiamo annotato un buon numero di titoli indispensabili, capaci di palesare la molteplicità di sguardo che è propria del cinema contemporaneo. Limpidi esempi di una ricerca cinematografica mai sopita, e la cui cura rappresenta da sempre il fiore all’occhiello del Torino Film Festival. Ma se questo poteva un tempo apparir facile, almeno andando a spulciare il fuori concorso, dobbiamo riconoscere a Moretti uno dei concorsi ufficiali più combattuti e di valore che ci sia capitato di vedere – qualora qualcuno ne fosse ancora all’oscuro, è d’uopo rammentare come possano aspirare al concorso solo ed esclusivamente registi che abbiano portato a termine, al massimo, l’opera terza. Si è già detto di Tony Manero, ma da par nostro ammettiamo di aver tifato spudoratamente, fino all’ultimo, per Prince of Broadway di Sean Baker, delicata storia clandestina nella multiculturale patria del capitalismo New York. E che dire di operazioni a loro modo coraggiose quali Helen, The Shaft, Bitter & Twisted; anche la maggior parte delle opere meno riuscite possedevano un fascino laterale, magari nascosto ma dal potenziale indubitalmente rimarchevole. E se, come accennavamo in precedenza, il fuori concorso di Torino 2008 appare come una sorta di pesca miracolosa (24 City di Jia Zhang-ke, New Orleans mon amour di Michael Almereyda, Les Sept jours di Ronit e Shlomi Elkabetz, Somers Town di Shane Meadows, W. di Oliver Stone, il bellissimo Wendy and Lucy di Kelly Reichardt, il genialoide Rumba di Dominique Abel, Fiona Gordon e Bruno Romy, il sorprendente e dolcissimo Let the Right One In dello svedese Tomas Alfredson), che dire dello straordinario United Red Army di Koji Wakamatsu, pronto a far bella mostra di sé ne Lo stato delle cose? E, soprattutto, come porsi di fronte a una selezione come quella portata a termine da Massimo Causo ne La Zona? Già l’anno scorso questa sezione collaterale ci aveva permesso di scoprire alcune delle perle più luccicanti (il criminosamente incompreso Bolboreta, mariposa, papallona di Pablo García e Ultimo: distintas maneras de matar un heroe nacional di Khavn de la Cruz), ma nulla in confronto a quanto ci è stato regalato durante le scorse giornate. Uno dopo l’altro si sono succeduti un Hirokazu Kore-eda tornato ai livelli di Nobody Knows e Maborosi (Still Walking), l’opera seconda di quell’Albert Serra che qui a Torino trionfò due anni fa con l’immaginifico Honor de cavaleria (El cant dels ocells), un piccolo coraggiosissimo ritratto adolescenziale autoprodotto dal trentenne statunitense Brandon Cahoon (Parade), il nuovo film, dopo Nuage, di Sébastien Betbeder (La vie lointaine) e soprattutto Historias extraordinarias, capolavoro extralarge – quattro ore e un quarto di durata – che segna l’ingresso nella storia del cinema del giovane cineasta argentino Mariano Llinás. Un’opera difficilissima da raccontare per quanto è densa di significati, stratificazioni del senso e della storia, epopea magica della terra del Mar de la Plata, grande romanzo argentino finalmente messo su schermo. Ecco, forse era questo che l’anno scorso era venuto a mancare, l’abbagliante annichilente sorpresa nei confronti dello splendore del cinema. Quella sensazione di essere davanti a qualcosa troppo più grande di noi per non esserne definitivamente sopraffatti.
Nanni Moretti ha trovato la chiave giusta, l’ingrediente in grado di far da collante tra le diverse aspirazioni del programma, l’amalgama indispensabile per rendere un festival un corpo a sé, pluricellulare ma unico: ha mantenuto l’ossatura del tempo che fu, modificandone alcuni aspetti ma senza snaturarne mai il senso, lavorando ai fianchi, evitando di inseguire chimere che non gli appartengono, come invece hanno fatto altri eventi legati al cinema (si veda alla voce Festival del Film di Roma), ma essendo consapevole della propria unicità, che fa ricoprire a Torino uno dei ruoli fondamentali per lo sviluppo della settima arte nel nostro martoriato paese. E se alla fine del festival, nonostante l’importanza che rivestivano i nomi messi in gioco (Roman Polanski, Jean-Pierre Melville, i registi della British Renaissance), ci siamo ritrovati a disertare quasi in blocco le proiezioni delle retrospettive, un motivo ci dovrà pur essere stato. Ci dispiace semmai di non essere riusciti a recuperare su grande schermo i gioielli partoriti dalla mente fervida di Kohei Oguri, che veniva omaggiato all’interno del programma de La Zona. Ma non si può avere tutto dalla vita; e quello che ci ha regalato il Torino Film Festival numero 26 è già tantissimo.