Hara-kiri: Death of a Samurai

Hara-kiri: Death of a Samurai

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Con Hara-kiri: Death of a Samurai Takashi Miike firma il remake del capolavoro di Masaki Kobayashi, tragica riflessione sull’iniquità della società feudale giapponese. In concorso a Cannes 2011.

Uomini d’onore

Desiderando una morte onorevole, un samurai ridotto in povertà, Hanshiro, richiede il permesso di suicidarsi nella residenza del clan Ii, comandato da Kageyu. Nel tentativo di scoraggiare Hanshiro, Kageyu gli racconta la tragica storia di un giovane ronin, Motome, recatosi recentemente al suo cospetto con la stessa medesima richiesta… [sinossi]

Quanti sono, all’interno del panorama cinematografico contemporaneo, i registi in grado di dimostrare lo stesso coraggio e la voglia di mettersi continuamente in discussione che anima le opere di Takashi Miike? Da questo interrogativo si deve partire per cercare di comprendere fino in fondo non solo la scelta di un’operazione produttiva come quella di Hara-kiri: Death of a Samurai (il titolo originale è Ichimei), ma anche la grandezza del film stesso, uno dei migliori visti nel concorso ufficiale della sessantaquattresima edizione del Festival di Cannes. In realtà una parte non indifferente di accreditati stampa si è avvicinata al film solo perché pubblicizzato dal festival strombazzandone il ruolo (del tutto casuale) di primo film in 3D presentato in concorso a Cannes: un peccato, perché in realtà mai come in questo caso la tecnica stereoscopica appare come qualcosa di poco più del classico specchietto per allodole. Oltre a non utilizzare la tridimensionalità per l’intera durata del film, limitandola a determinate sequenze – pur composte con una certa cura – Miike fa del 3D un’arma di provocazione, perseguendo comunque una messa in scena razionale, geometrica, rigorosa come pretenderebbe il genere.

Perché Hara-kiri: Death of a Samurai è un classico jidai-geki, un racconto di epoche passate, remake del capolavoro di Masaki Kobayashi che se ne tornò in Giappone dalla Croisette portando con sé il Premio Speciale della Giuria. Altra scelta, questa, che denota un coraggio fuori dal comune: chi, a parte Miike, avrebbe avuto l’ardire di assumersi le responsabilità di un rifacimento così rischioso nel paragone? Se il regista di 13 Assassins – che dopo la scandalosa esclusione dai premi all’ultima Mostra di Venezia, uscirà finalmente nelle sale italiane il prossimo giugno – esce dalla contesa incolume e vittorioso, è perché non accetta in maniera prona di riprodurre sullo schermo la poesia visiva di Kobayashi, riuscendo allo stesso tempo a mantenere uno stretto legame con il film di quasi cinquant’anni fa. Se la trama è pressoché identica (fanno eccezione alcuni piccoli dettagli, in ogni caso non particolarmente rilevanti ai fini della narrazione e del risultato artistico), ciò che davvero coglie la comunione d’intenti ideale tra Kobayashi e Miike è la volontà di lavorare sul jidai-geki come se si stesse in realtà mettendo in scena un gendai-geki, una storia ambientata nella contemporaneità: l’atto di profonda e incorruttibile accusa contro la vacuità del codice di vita samurai, visto come ipocrita dimostrazione di potere priva di alcuna umanità e comprensione, colpisce al cuore di una parte della popolazione giapponese oggi come cinquant’anni fa. Se il samurai rimane il simbolo stesso dell’eroismo e della nettezza etica della terra di Yamato – e non è certo un caso che da quando ha iniziato a ottenere apprezzamento e vittorie la nazionale di calcio sia stata ribattezzata Samurai Blue – e l’atto della morte rituale viene tuttora rispettato da buona parte della nazione, metterne in scena una così completa distruzione non può che apparire come una scelta dirompente, quasi eretica.

Al di là della confusione tutta occidentale tra i termini hara-kiri e seppuku (entrambi i rituali contemplano lo sventramento, ma solo il secondo prevede la presenza anche di un kaishakunin, vale a dire colui che provvede alla decapitazione del suicida dopo che questi si è inferto il colpo all’addome, in modo da evitare che il dolore finisca per sfigurargli il volto), figlia di un’ignoranza verso la cultura orientale che nasce da radici antiche, il film di Miike si iscrive a tutti gli effetti tra le tragedie ambientate nell’epoca Tokugawa più riuscite degli ultimi anni. In un percorso a flashback (simile a quello dell’originale) che va dal 1617 al 1634, vale a dire dalla morte di Ieyasu Tokugawa a poco dopo quella di Hidetada, suo successore alla guida dello shogunato, viene raccontata la storia di una famiglia che ha perso la propria classe sociale di appartenenza e non conta più nulla all’interno dei codici civili nipponici dell’epoca: Hanshiro e Motome – straordinari per intensità e capacità di controllo emotivo Ebizo Ichikawa ed Eita, così come anche Koji Yakusho e la giovane Hikari Mitsushima vista di recente al Far East in Villain – sono uomini destinati alla morte prima ancora che essa si abbatta effettivamente su di loro. L’attaccamento alla vita che dimostrano, l’amore verso la famiglia che esprimono senza bisogno di eccedere nei formalismi cui invece si rifanno gli uomini del clan Ii, sono elementi cristallizzati da Miike attraverso una messa in scena rigorosa ma sempre pronta a esplodere di una rabbia trattenuta, indomabile e salvifica. Movimenti di macchina parcellizzati ma sempre essenziali e sorprendenti, e un finale che ha da solo la forza di scardinare il mito stesso del clan: Hara-kiri: Death of a Samurai è in questo senso l’immagine speculare di 13 Assassins, il suo negativo fotografico e, allo stesso momento, il suo doppio, vero e proprio gemello eterozigoto.
Due opere maestose e dolorose, una volta terminate le quali la stragrande maggioranza dei cineasti pretenderebbe un meritato riposo: ma Miike non è la “stragrande maggioranza”, e ha appena finito Ninja Kids, tratto dal celebre manga Nintama Rantaro. Dimostrazione ultima e incontrovertibile della rara capacità di Miike di saper leggere il cinema a 360°: un privilegio di pochi.

Info
Il trailer di Hara-kiri: Death of a Samurai.
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