La chiave di Sara

La chiave di Sara

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È un film diseguale La chiave di Sara: sincero nella propria invettiva contro le discriminazioni ma, in fin dei conti, senza troppo da dire sull’argomento. Brava comunque Kristin Scott-Thomas, oramai adottata dalla Francia e completamente a proprio agio nel doppio ruolo linguistico.

Rimembranze

Parigi, ai giorni nostri. Julia Jarmond, giornalista americana che vive in Francia da 20 anni, sta facendo un’inchiesta sui dolorosi fatti del Velodromo D’inverno, il luogo in cui vennero concentrati migliaia di ebrei parigini prima di essere deportati nei campi di concentramento. Lavorando alla ricostruzione degli avvenimenti si imbatte in Sara, una donna che aveva 10 anni nel luglio del 1942, e ciò che per Julia era solo materiale per un articolo, diventa una questione personale, qualcosa che potrebbe essere legato ad un mistero della sua famiglia… [sinossi]

Ogni anno, tra la metà e la fine di gennaio, puntualmente approda nelle sale italiane un film incentrato sulle terribili vicende relative all’Olocausto del popolo ebraico perpetrato dal nazismo nella sua criminale idea di “purificazione della razza” – che prevedeva l’eliminazione fisica anche di zingari, omosessuali, intellettuali, oppositori politici e via discorrendo. È il modo che il cinema ha per partecipare alla Giornata della Memoria, istituita proprio per non dimenticare uno degli eventi più traumatici della storia del Novecento. Dopotutto di materiale a disposizione per allestire trame cinematografiche credibili non ne manca di certo: dalle leggi razziali di alcuni paesi, tra cui l’Italia, fino al contributo nella deportazione in Germania dei cittadini di religione ebraica, sono davvero pochi gli stati che possono sperare di uscire indenni dal tribunale della Storia.
La Francia, per esempio, fatica ancora oggi a convivere con il ricordo dell’atroce rastrellamento parigino culminato nella reclusione in quello che veniva chiamato Vel’ d’Hiv (ovvero Velodromo d’Inverno), dove furono stipati in condizioni abominevoli quasi 13000 esseri umani in attesa della deportazione. A provvedere al tardivo risarcimento nei confronti delle vittime (dalla Germania fecero ritorno in meno di novecento) giunge, dopo il presidente Chirac nel 1995, La chiave di Sara, che Gilles Paquet-Brenner – Les jolies choses, Gomez & Tavarès – ha tratto da un best-seller mondiale firmato da Tatiana de Rosnay nel 2007.

Nel rintracciare le coordinate dei tragici eventi del 1942, il libro (e il film) vi affianca la presa di coscienza di una giornalista statunitense trapiantatasi in Francia, dove ha trovato marito e messo su famiglia, che ai nostri giorni si trova a dover indagare sui fatti del Velodromo d’Inverno e scopre, con suo sommo sbigottimento, che la casa dove sta per trasferirsi fu occupata dalla famiglia del marito proprio nel lontano 1942, una volta che la famiglia ebrea che vi abitava era stata trascinata via con la forza. Questo la spinge a cercare di scoprire tutto sui precedenti inquilini, anche perché di tal Sara e del suo fratellino non vi è traccia negli archivi di Auschwitz… e se fossero sopravvissuti? Il film si muove dunque su un duplice binario: da un lato pone la ricostruzione d’epoca, con la Francia occupata e collaborazionista e la quotidiana lotta per la sopravvivenza di un’intera nazione; dall’altro, invece, si interroga sull’attualità, cercando di comprendere quale eco e di che portata sia ancora udibile oggi di ciò che di spaventoso avvenne appena sessant’anni fa. Un proposito senza dubbio encomiabile, sia in un senso che nell’altro, ma che non trova piena risoluzione lungo la durata del film: se l’impatto emotivo e umorale della sequenza al Velodromo è senza dubbio un vero e proprio pugno nello stomaco – per ciò che sottintende piuttosto che per ciò che mostra, vista la scelta piuttosto pudica di Paquet-Brenner in chiave di regia – assai meno convincente appare l’evoluzione del personaggio di Sara, ricostruito pezzo dopo pezzo dalla giornalista neanche si trattasse di un puzzle privo di tutt le tessere necessarie per il completamento. Un percorso a suo modo monco, quasi castrante, e risolto con fin troppi finali – l’apparizione di Aidan Quinn appare francamente poco necessaria, tanto per dirne una.
In realtà è proprio l’attualità a sfilacciarsi con più facilità durante lo svolgersi della trama: come se non fosse realmente in grado di leggere la crisi d’identità della borghesia odierna, Gilles Paquet-Brenner si riduce a una serie di dialoghi tra moglie e marito carichi di una banalità francamente poco adatta a contesti di questo tipo. Un film dunque diseguale, sincero nella propria invettiva contro le discriminazioni ma senza troppo da dire, in fin dei conti, sull’argomento.
Brava comunque Kristin Scott-Thomas, oramai adottata dalla Francia e completamente a proprio agio nel doppio ruolo linguistico.

Info
Il trailer de La chiave di Sara.
La chiave di Sara sul canale Film su YouTube.
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