Lettere da Berlino

Lettere da Berlino

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Ispirandosi a un romanzo di Hans Fallada, Vincent Pérez dirige con Lettere da Berlino un thriller politico elegante, che pecca però di superficialità quando vuole allargare lo sguardo a rappresentare il contesto della Germania nazista.

Cartoline resistenti

Berlino, 1940: dopo la morte del figlio al fronte, i coniugi Otto ed Anna Quangel iniziano una capillare diffusione di messaggi volti a condannare il regime di Hitler, vergati su un gran numero di cartoline postali. In poco tempo, le cartoline invadono la capitale tedesca, mettendo in crisi il corpo di polizia locale… [sinossi]

Se i temi dell’Olocausto, e delle ricadute umane, politiche e sociali dell’orrore nazista hanno rappresentato, negli ultimi decenni, elementi prediletti per il cinema di tutte le latitudini, meno battuto è stato, finora, il fattore del consenso al regime registrato in patria, e quello (sempre sottaciuto, eppur presente) dell’opposizione ad esso. Un vero e proprio rimosso, quello della resistenza interna, favorito dalla sua (sostanziale) marginalità storica, che tuttavia un regista come Vincent Pérez (svizzero di madre tedesca) prova a prendere di petto in questo Lettere da Berlino. Un film, quello di Pérez, ispirato al romanzo di Hans Fallada Ognuno muore solo (già elogiato da Primo Levi) e incentrato sui reali eventi storici che videro protagonisti Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1943 per la diffusione di un gran numero di messaggi antinazisti vergati su cartoline postali. I due coniugi, divenuti Otto ed Anna Quangel nella finzione, abbracciarono anima e corpo la causa antinazista dopo la perdita del loro unico figlio, caduto al fronte nel 1940, ingaggiando per oltre due anni una vera e propria sfida con l’impotente corpo di polizia locale.

È narrato come un thriller, il film di Pérez, ed è la sua componente più prettamente tensiva, quella in grado di parlare ai nervi (oltre che alla testa) dello spettatore, il suo principale punto di forza. Quella ingaggiata dai personaggi di Brendan Gleeson ed Emma Thompson col capo della polizia locale, un problematico Daniel Brühl, è una sorta di partita a scacchi in cui, seguendo il più classico schema del poliziesco (rovesciato qui nell’identificazione spettatoriale) il cacciatore cerca di identificarsi, fino a comprenderne il punto di vista, con la sua preda. Uno schema che “asciuga” il film (ed è un bene) da ogni retorica, limitando i rischi di un approccio smaccatamente melodrammatico o declamatorio, e cercando di analizzare la società tedesca dell’epoca restando saldamente ancorati ad una struttura di genere. Un approccio alla materia, quello del regista svizzero, che limita la componente emotiva della vicenda alla rappresentazione (pennellata con pochi, e riusciti, tocchi) del rapporto tra i due coniugi, lasciando volutamente sottotraccia il tema del lutto; una scelta che tuttavia rende un po’ didascalica (e in definitiva superflua) la sequenza iniziale, quella in cui viene messa in scena la morte in battaglia del giovane, innesco narrativo della storia.

Se la progressione narrativa della vicenda, culminata in un efficace climax emotivo, funziona bene sul piano dell’atmosfera e della messa in scena (malgrado qualche forzatura di troppo – vedi il primo avvistamento del personaggio di Gleeson), il film si rivela meno efficace quando cerca di farsi spaccato sociologico, andando a indagare (o provando a farlo) i meccanismi del consenso, dell’identificazione e della paura che regolavano il regime. La delineazione di una società totalitaria resta tutta esteriore, esplicitata nelle svastiche che invadono le strade, negli “Heil Hitler” declamati da buoni e cattivi, in un orrore esibito quanto mai indagato nelle sue radici. L’esempio più plastico di questo limite è l’incoerente gestione narrativa del personaggio di Brühl, esponente e vittima dell’ingranaggio, spietato aguzzino (che arriva finanche all’omicidio) poi rapidamente e poco convintamente redentosi. Così, se funziona l’aspetto più intimo della vicenda, quello di una love story che resiste agli anni, al dolore della perdita e all’oppressione politica (ben incarnato dai due ottimi protagonisti) in ombra resta la dimensione dell’affresco sociale, semplice sfondo (corretto quanto anonimo) di un efficace thriller politico. La definizione del “granello di sabbia nell’ingranaggio”, incarnato dalle cartoline, poteva dar luogo a una più generale riflessione, qui solo sfiorata, sui meccanismi della controinformazione (e sulla sua efficacia) in un regime totalitario.

La scelta operata da questo Lettere da Berlino nel segno di una narrazione in chiave thriller, asciutta, antiretorica e non priva di eleganza nella messa in scena, finisce così anche per rappresentare un limite, laddove lo sguardo del regista non si allarga sufficientemente al contesto; o laddove, nel momento in cui cerca di farlo, inciampa goffamente nella resa di alcuni dei suoi esponenti (il poliziotto interpretato da Brühl) e in una generale mancanza di coerenza. Un prodotto, quello di Pérez, che lascia inesplorate molte delle potenzialità del suo soggetto, limitandosi a una ricognizione di superficie, unicamente funzionale alle esigenze di una vicenda che non assume mai la valenza universale che dovrebbe avere, su uno dei momenti-chiave della storia contemporanea.

Info
Il trailer di Lettere da Berlino.
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