French Connection

French Connection

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Per il suo French Connection, Cédric Jimenez guarda intensamente al gangster movie e al polar old style, con più di una strizzatina d’occhio al cinema di Scorsese, ma quello che arriva sul grande schermo non va oltre il solito “romanzo criminale”. Cura nella confezione e un cast di all star al servizio di un’opera seconda che non decolla.

I tentacoli della piovra

Marsiglia, 1975. Pierre Michel, giovane magistrato appena arrivato da Metz con moglie e figli, viene incaricato di un’inchiesta sul crimine organizzato. Appena insidiatosi decide di attaccare la cosiddetta French Connection, un’organizzazione mafiosa che esporta eroina in tutto il mondo. Rifiutandosi di dare ascolto a chi lo invita alla cautela, Pierre s’imbarca in una crociata personale contro il leggendario e intoccabile padrino Gaetan Zampa, ma deve rendersi conto che se vuole ottenere dei risultati deve cambiare tattica… [sinossi]

Dopo un fugace sguardo alla sinossi di French Connection è impossibile non essere immediatamente assaliti da quella non sempre piacevole sensazione di déjà vu che si manifesta tutte le volte che ci si trova al cospetto di qualcosa di già visto, un qualcosa che nel dna drammaturgico e narrativo sembra non avere particolari sorprese da riservare allo spettatore con un minimo di dimestichezza nei confronti di una tipologia ben precisa di storia o di filone. Agli occhi di quest’ultimo, infatti, il tutto appare maledettamente prevedibile, tanto nell’evoluzione del racconto quanto nel destino dei personaggi che lo animano. Tutto finisce con il seguire uno schema predefinito, sorretto da un’architettura narrativa i cui pilastri non sono altro che turning point e one line che già si conoscono, come le tappe e le soste di un viaggio già fatto innumerevoli volte.
L’opera seconda di Cédric Jimenez è un déjà vu continuo, che risuona nella mente del cinefilo come un martello pneumatico. Il problema non è tanto il rifarsi a codici appartenenti a un determinato genere o alla loro combinazione, perché è pratica comune, piuttosto il non saperli rielaborare o almeno mettere al servizio della storia che si è deciso di portare sul grande schermo.

Significativa ed esemplare, in tal senso, la lezione del connazionale Olivier Marchal, capace nei suoi film di attingere dal passato, per poi plasmare e personalizzare ciò che ha preso in prestito. Di conseguenza, al di là del legittimo rivolgersi ai suddetti codici, affiancati da tutta una serie di citazioni, richiami e omaggi più o meno espliciti al regista o al genere di turno, che in questo caso fanno riferimento al cinema di Scorsese e all’omonimo film di Friedkin, oltre che ai gangster movie e ai polar old style, il fattore sorpresa viene meno. Ancora più grave se il fattore in questione è l’elemento mistery in una base thriller.
Ed è questo il limite più evidente oltre il quale la pellicola di Jimenez, nelle sale nostrane dal 26 marzo con Medusa dopo la presentazione all’ultima edizione del Toronto Film Festival, non riesce ad andare e che non le permette di spiccare il volo. Nonostante la cura della confezione sia nella messa in scena sia nella messa in quadro (il solo utilizzo di fonti di luce naturale e diegetica conferisce all’immagine una forte sensazione di realismo), la presenza di un cast all star (il trio formato da Jean Dujardin, Gilles Lellouche e Benoît Magimel, rispettivamente nei panni di Pierre Michel, Gaetan Zampa e Le fou), che tengono a galla l’opera sulla soglia della sufficienza, il regista non riesce a sfruttare al meglio il potenziale drammaturgico messo a disposizione da una storia che trae ispirazione da fatti e personaggi reali.

Il risultato è l’ennesimo “romanzo criminale” nella quale si fronteggiano senza regole d’ingaggio la giustizia e la malavita, in una spirale di doppi giochi, loschi affari, lotte intestine e infiltrazioni, che non consente di stabilire con esattezza chi sta dalla parte di chi, ma soprattutto dove finisce il bene e inizia il male. Teatro di guerra del gioco al massacro non poteva essere altro che la Marsiglia degli anni Settanta-Ottanta, che in French Connection diventa un personaggio dal cuore pulsante e sanguinante. E la mente non può non tornare a un cult come Borsalino, con la coppia delle meraviglie Delon-Belmondo. Sullo sfondo, la Storia con la “S” maiuscola di una nazione alle prese con profondi cambiamenti politici e sociali, nel quale arrancando si fa largo lo scontro senza esclusione di colpi tra i due protagonisti (qui il pensiero torna, con le dedite distanze, all’epico duello di Heat – La sfida). Peccato che la battaglia si consumi su una distanza eccessiva, con rari attacchi e poche accelerazioni nel ritmo degni di nota (la catena d’arresti), che non bastano a giustificare le due ore e passa di durata.

Info
Il trailer di French Connection.
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