Venezia 2016 – Presentazione
Presentato a Roma il programma ufficiale di Venezia 2016, settantatreesima edizione della Mostra, la quinta dopo il ritorno di Alberto Barbera in veste di direttore artistico.
In un’epoca in cui i social network hanno acquisito un peso specifico prioritario nella lettura del contemporaneo e di ciò che accade nel mondo, dare una scorsa ai profili di appassionati cinefili e addetti ai lavori è esercizio quantomai utile. Ebbene, da quando le cartelle stampa distribuite all’interno del Westin Excelsior di via Veneto (sede in cui da anni si svolge la conferenza stampa ufficiale della Mostra) hanno messo nero su bianco attese, desideri, paure e curiosità di chi segue il mondo del cinema e dei festival, tra post e cinguettii è stato semplice imbattersi in affermazioni sulla falsariga de “la migliore edizione degli ultimi dieci/quindici anni”. Precisando fin da subito che mettersi a fare le pulci a un programma prima di aver avuto l’occasione di vedere i film è solo dimostrazione di un ozio intellettuale, il tenore delle affermazioni sembra a dir poco esagerato; se è vero che il parterre di partenza di Venezia 2016 è senz’ombra di dubbio degno di nota, in particolar modo per una pattuglia statunitense più solida di quella delle ultime edizioni, l’impressione è che la memoria si sia fatta corta. Tanto per rimanere agli anni dal 2000 in poi, impossibile dimenticare edizioni come il 2007, dove a rincorrere l’ambito Leone d’Oro erano tra gli altri Wes Anderson, Youssef Chahine, Brian De Palma, Andrew Dominik, Peter Greenaway, José Luis Guerín, Todd Haynes, Jiang Wen, Abdellatif Kechiche, Ang Lee, Ken Loach, Takashi Miike, Eric Rohmer e Johnnie To, o come il 2001 (Pintilie, Gitai, Fruit Chan, Ulrich Seidl, Téchiné, Capuano, ancora Loach, Botelho, Payami, Garrel, Kim Ki-duk e Linklater), o ancora il 2011 (Clooney, Polanski, Cronenberg, Alfredson, Friedkin, Ferrara, Garrel, Sokurov, Solondz, Sion Sono, Ann Hui, McQueen, To).
L’entusiasmo di fronte alla presenza di alcuni dei nomi più interessanti del panorama internazionale, a partire da Pablo Larraín con Jackie (addendum dell’ultim’ora all’interno del palinsesto), può essere condiviso, ma l’impressione è che lo schema che ha sorretto la Mostra dal 2012 in poi non sia stato in nessun modo messo in discussione. Se si rimarca la ricca presenza statunitense (lo stesso Jackie è una produzione a stelle e strisce, e a lui si aggiungono i nuovi film di Damien Chazelle, Derek Cianfrance, Tom Ford, Terrence Malick, Denis Villeneuve e quella Ana Lily Amirpour che solo un paio di anni fa sorprendeva il pubblico del Festival di Roma con l’horror vampiresco in bianco e nero A Girl Walks Home Alone at Night) è anche perché da sola cannibalizza un terzo dell’intero concorso.
Dopotutto Alberto Barbera, che con la riconferma fino al 2020 diventerà il direttore più longevo della storia della Mostra, con ben dodici edizioni organizzate, non ha mai nascosto la volontà di annodare i fili che legano il Lido a Hollywood e dintorni; muovendosi tra le varie sezioni sono ben quindici i film che provengono da oltre oceano. Con la possibilità, magari, di ospitare anche quest’anno uno o più premi Oscar… Il progetto è chiaro, e possiede anche una propria logica incrollabile. Per raggiungere l’obiettivo, però, l’impressione è che si rischi di perdere di vista l’insieme. Va bene riportare in un Lido sempre più desertificato di presenze umane – altro dettaglio su cui riflettere che in buona parte viene dimenticato, o per meglio dire rimosso, dal processo mediatico – i grandi nomi di star (attori più che registi), nella speranza di ridare lustro a un “tappeto rosso” che ha perso smalto con il passare degli anni, ma per il resto qual è la direzione che sta prendendo la Mostra?
Negli ultimi anni Venezia ha smesso di indagare sul mondo del cinema, e sul nuovo; si è limitata a restaurare nomi finiti nel dimenticatoio – quest’anno tocca a Emir Kusturica e Giuseppe Piccioni in concorso, Benoît Jacquot nel fuori concorso, Gabriele Muccino in Cinema nel Giardino, spazio dove trovano collocazione tra gli altri anche In Dubious Battle di James Franco e Geumul di Kim Ki-duk, altro “fedelissimo” del direttore – o ad accogliere registi già svezzati da altre realtà festivaliere europee. Un discorso valido per l’intera truppa nordamericana, ma anche per Stephan Brizé, Amat Escalante, lo stesso Lav Diaz, che dopo aver trovato slancio internazionale nelle edizioni di Marco Müller, è riuscito a concorrere per il Leone d’Oro solo grazie al “certificato di qualità” rilasciato prima da Locarno (dove From What is Before vinse il Pardo d’Oro) e lo scorso febbraio dalla Berlinale, che ha assegnato a A Lullaby to the Sorrowful Mystery l’Alfred-Bauer-Preis.
Perse di vista come oramai d’abitudine sia la produzione asiatica (sempre più difficile da rintracciare nel programma della kermesse veneta) che ancor più quella africana, Barbera dimostra coraggio ancora una volta nella scelta dei titoli italiani. La presenza di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti con Spira mirabilis è certamente la ciliegina sulla torta del concorso – e Barbera non è nuovo a opzioni simili, come dimostrano anche Sacro G.R.A. di Gianfranco Rosi nel 2012 o, andando indietro nel tempo, Appassionate di Tonino De Bernardi nel 1999 e Luna rossa di Antonio Capuano nel 2001 –, ma altrettanto interessanti appaiono sulla carta Piuma di Roan Johnson, sempre in concorso, Tommaso di Kim Rossi Stuart fuori competizione e Liberami di Federica Di Giacomo in un concorso di Orizzonti che per l’ennesima occasione sembra una sezione svuotata di identità.
Ma il vero colpo di fulmine della selezione italiana potrebbe essere Monte, l’atteso film di Amir Naderi girato in Alto Adige che, dopo una lunga e travagliata lavorazione, è stato finalmente portato a termine. La consegna del premio “Glory to the Filmmaker” a Naderi è anche un segnale importante, il riconoscimento a una carriera fuori dagli schemi e indomita. Nonostante tutto. Da qui, come da Austerlitz di Sergei Loznitsa e Ku qian di Wang Bing, la Mostra potrebbe/dovrebbe ripartire. Non sarà così, probabilmente, ma l’illusione è un piacere ancora concesso, nel cuore dell’estate.