A casa nostra

A casa nostra

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Legandosi direttamente al presente della politica francese, A casa nostra restituisce un efficace quadro del pericoloso mix tra populismo e razzismo, pur non evitando alcune evidenti ingenuità e sbavature narrative.

Sarà la nostra casa?

Infermiera a domicilio nel distretto di Pas de Calais, nel nord della Francia, divisa tra il lavoro e la cura del padre malato e dei due figli, Pauline Duhez viene contattata dal Rassemblement National Populaire, partito di estrema destra che cerca di dare di sé un’immagine presentabile, che le propone la candidatura a sindaco. Malgrado i suoi molti dubbi, e la ferma condanna di suo padre, vecchio militante comunista, la donna accetta infine l’incarico; ma si renderà presto conto che il partito nasconde un volto nascosto, e un mai reciso legame con un passato violento e xenofobo. [sinossi]

Difficile valutare un lavoro come A casa nostra prescindendo dall’attualità, dalle notizie che in tempo reale stanno affluendo, anche nel nostro paese, in riferimento alla campagna elettorale francese. Difficile se non impossibile, anche perché l’uscita del film di Lucas Belvaux è stata posizionata in questo periodo col preciso scopo di legarsi direttamente ai protagonisti dell’attuale politica francese; e in particolare all’ascesa di quella Marine Le Pen di cui il personaggio della leader politica Agnès Dorgelle (figlia di un vecchio leader neofascista, che tenta di darsi una facciata presentabile) è perfetto alter ego filmico. Un’operazione così programmatica, così dichiaratamente legata a un’attualità in pieno svolgimento (e dall’esito più che mai in bilico) non può che portare con sé i rischi di tutte le operazioni simili: rischi di alienazione di una parte del pubblico (il Front National, partito della Le Pen, ha protestato prima ancora di aver visto il film), ma soprattutto rischi di concepire un’opera a tesi, che fagociti narrazione e personaggi in favore dell’impeto da pamphlet, di un’impostazione meramente e scolasticamente divulgativa.

Lucas Belvaux, cineasta eclettico e dallo stile duttile (capace di dirigere una commedia sentimentale sui generis come il recente Sarà il mio tipo?) non è un regista militante, e questa consapevolezza informa di sé (per fortuna) tutto il film. Il cinema del regista belga, fatto di narrazioni solide e personaggi forti, tende anche in questo caso a sfumare gli schematismi del genere, consapevole di non poter raggiungere il rigore e la limpidezza di sguardo di autori come i Dardenne (col cinema dei quali, comunque, il film mantiene il trait d’union della protagonista Émilie Dequenne, già presente in Rosetta). C’è da credere a Belvaux quando ha affermato, presentando il film, di non aver voluto dirigere un’opera anti-Front nationale: A casa nostra sembra piuttosto un film che parla del nostro presente (non solo di quello del popolo francese), della supposta fine delle ideologie e della reale confusione delle categorie politiche, di un populismo che contamina direttamente il corpo della società, di uno spaesamento e di una tendenza all’individuazione di capri espiatori che silenziosamente (ma con drammatica efficacia) finisce per coinvolgere anche gli ambienti sociali apparentemente più dotati di anticorpi.

I silenziosi campi lunghi che aprono e chiudono il film, a ritrarre le strade deserte della cittadina in cui la storia si svolge, rappresentano in questo senso una specie di dichiarazione d’intenti: sono i luoghi e i volti della quotidianità, quella più minuta, ad essere messi sotto la lente d’ingrandimento del regista. Legando direttamente il suo svolgimento (e le sue conclusioni) ai processi sociali della vita urbana, alle quotidiane e reiterate interazioni dell’efficace protagonista con pazienti, amici e familiari, il film evita (e ciò è un suo merito) di cadere a sua volta nell’impostazione populista; mantenendo invece un approccio descrittivo che resta al di qua della valutazione sommaria, e che cerca di rendere il modo in cui il virus della discriminazione possa penetrare lentamente e quasi inavvertito nel corpo sociale, tramite la mistificazione e la distorsione del linguaggio (il vocabolario del movimento politico bandisce parole come “arabi” o “islamici” nell’individuazione del nemico, ma lascia che l’eventuale elettore le usi, senza correggerlo: perché “non è nostro compito fare i censori”). Così, lasciando quasi sempre fuori campo la violenza esplicita (anche in quella singola sequenza, nella frazione iniziale, in cui ci aspetterebbe la sua diretta esibizione), il film riesce a restituirne le ricadute, nonché a suggerirne la presenza dietro il volto rassicurante del personaggio interpretato da Catherine Jacob.

Non è un’opera priva di ingenuità e imperfezioni narrative, A casa nostra, alcune delle quali risultano invero piuttosto evidenti; mai tali, comunque, da offuscare il quadro d’insieme che il film punta a restituire. Nell’efficace, secca resa della vita del “Bloc”, faccia selvaggia e ipocritamente rinnegata del movimento istituzionale del RNP, piuttosto incerta è la delineazione del personaggio di Stéphane, compagno della protagonista e skinhead mai pentito; nella frazione finale del film, la sceneggiatura incolla in modo posticcio una velleitaria e inutile sottotrama thriller. Sbavature e (limitati) deragliamenti che non cancellano la lucidità dell’approccio del film, che riesce a legarsi con efficacia all’attualità scegliendo il registro più adeguato per le caratteristiche di un cineasta come Belvaux: quello all’insegna della trattazione indiretta, che evidenzia volti spaesati, fragili e privi di certezze (a cominciare da quello della protagonista), terreno di coltura ideale per una retorica elaborata quanto vuota di sostanza. Un approccio a cui, nei suoi limiti di resa sullo schermo, non si può non riconoscere una buona dose di radicalità.

Info
Il trailer di A casa nostra su Youtube.
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