Wonder Woman

Wonder Woman

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Sospeso tra il biopic superomistico e il revival del peplum anni ’50, Wonder Woman di Patty Jenkins si concentra tutto sulla formazione della supereroina e su un epos un po’ naïf.

Donna-bambina

Diana, principessa delle Amazzoni, è cresciuta su un’isola paradisiaca al riparo dal mondo esterno e si è allenata per diventare una guerriera invincibile. L’arrivo di un pilota americano, schiantatosi sulle coste e il suo racconto riguardo al violento conflitto che si sta scatenando oltre quei confini, inducono Diana a lasciare la propria casa, convinta di poter fermare quella minaccia. [sinossi]

Inutile aspettarsi altro, nell’aspra lotta tra i due (per ora) media franchise fumettistici contemporanei, i ruoli sono oramai ben definiti. Se da un lato il Marvel Cinematic Universe prosegue accattivandosi un pubblico di adulti e ragazzi con alte dosi di ironia, citazioni pop-colte e i gustosi rimandi autopromozionali nelle sequenze post-credits, l’avversario DC Extended Universe punta tutto su un (super)eroismo dalla retorica roboante, indirizzato ai nostalgici del genere (e dei fumetti originali), ma anche, prevalentemente, a un target più infantile.
E non è un caso dunque che Wonder Woman, atteso primo cinecomic al femminile, dedichi così ampio spazio alla fin troppo lenta formazione della sua eroina, si prodighi in un epos la cui natura classica vieta ogni forma di autoironia (sfidando dunque senza paura il ridicolo involontario sempre in agguato) e rinunci infine fiero agli ammiccamenti post-credits.

Diretto dalla Patty Jenkins di Monster, il quarto capitolo dell’Universo DC (dopo L’uomo d’acciaio, Batman v Superman, Suicide Squad) rappresenta inoltre una sorta di passo indietro rispetto al sempre più vicino (l’uscita è prevista il 16 novembre) crossover Justice League, dal momento che è tutto incentrato sul personaggio di Diana Prince/Wonder Woman, laddove, nel Batman v Superman di Zack Snyder, la stessa appariva già al fianco dei due colleghi maschi cui il titolo fa riferimento.

Sospeso tra il biopic superomistico e il revival del peplum anni ’50, Wonder Woman è inoltre tutto costruito su espediente narrativo d’antan: un lungo flashback. A parte l’incipit con la protagonista adulta intenta a recuperare, su indicazione di Bruce Wayne/Batman, la lastra originale del dagherrotipo (già visto nel film di Snyder) che la ritraeva al fianco di una squadra di combattenti della Prima Guerra Mondiale, il film si struttura come un prolungato viaggio nel passato volto a raccontare come la semi-dea sia giunta su quel campo di battaglia.

Si parte dunque dalle origini, con la piccola Diana, principessa del regno delle Amazzoni, intenta a trascorrere l’infanzia nella mitologica isola Themyshyra. La ragazzina ha un’ineludibile desiderio di farsi addestrare dall’atletica zia Antiope (Robin Whright), ma la madre e regina Hippolyta (Connie Nielsen) non è dello stesso avviso: vuole proteggerla ritardandone il più possibile l’apprendistato da guerriera. Naturalmente Diana e la zia faranno comunella, iniziando precocemente gli allenamenti gladiatori, nei quali il talento della ragazzina non tarderà a manifestarsi. Anzi, una volta adolescente, Diana (Gal Gadot) avrà bisogno di sfoderare tutte le sue arti guerresche, quando un soldato della Prima Guerra Mondiale, Steve Trevor (Chris Pine), si ritroverà spiaggiato, novello Ulisse, sulla sua isola edenica, portando con sé gli echi di una Grande Guerra cui lei non può sottrarsi, se vuole adempiere al dovere primo della sua specie: portare agli uomini la pace e l’amore.
Traslatasi dunque nell’Europa del primo Novecento, Diana si ritrova ancora una volta a proseguire la sua gavetta, mentre inizia la sua ricerca del nemico dei nemici: il dio della guerra Ares in persona.

È un lungo racconto di formazione Wonder Woman, dove la protagonista, un po’ come la donna-pesce di Splash – Una sirena a Manhattan, deve fronteggiare una serie di difficoltà di adattamento, per poi prendere coscienza di un’amara verità: gli uomini sono un po’ buoni e un po’ malvagi. Ma laddove nel sempreverde cult movie di Ron Howard, il personaggio femminile (Daryl Hannah) riusciva a dare scandalo con la sua innocenza priva di freni inibitori, la Diana Prince della Jenkins, se si esclude qualche doppio senso erotico nell’incontro iniziale con il soldato Trevor, pare non battere ciglio di fronte a niente. D’altronde le cose nuove con cui questa donna-bambina deve familiarizzare non appaiono per nulla foriere di gag brillanti, limitandosi alle iniziali difficoltà con gli abiti novecenteschi, l’apprendimento del valzer, il primo incontro con la neve.
Ciononostante, bisogna ammettere che lo spaesamento e la naïveté della supereroina la rendono fin da subito assai più simpatica dei suoi colleghi maschi (il muscoloso nuovo Batman incarnato da Ben Affleck e il monoespressivo Superman interpretato da Henry Cavill), peccato però che il suo ingresso marziale sul campo di battaglia sia così ritardato. La Jenkins orchestra con cura i corpo a corpo gladiatori, ma dimostra anche eccessiva fiducia nell’ausilio di una computer graphic sontuosa più che fracassona, che prende le mosse inizialmente da un’interessante ricostruzione michelangiolesca in stile Giudizio Universale, con Zeus intento a creare il mondo e poi a ricusare Ares, per approdare, nella seconda parte del film, alle abituali esplosioni con palle di fuoco e sollevamento di zolle.
Unica consolazione resta, nei momenti d’azione, il ritorno di quel riff di chitarra, già ascoltato in Batman v Superman che costituisce il leit motiv dell’eroina, nonché probabilmente l’unico vero elemento di originalità nel suo inserimento all’interno del franchise DC/Warner.

Quanto ai cattivi della vicenda, essi risultano nel complesso tre occasioni sprecate. Tralasciando per questioni di spoiler il perfido Ares (forse il migliore dei tre), il temibile generale tedesco Ludendorff incarnato da Danny Huston è una sorta di malvagio dopato da sostanze psicotrope non ben identificate. Ben più interessante, almeno sulla carta, appare il personaggio della Dott.ssa Maru (Elena Anaya), ideatrice di sieri letali e sfigurata dalle sue stesse creazioni, la dottoressa avrebbe meritato ben altro trattamento, invece non fa altro che trafficare tra provette e formule per poi uscire di scena in maniera sbrigativa quanto irrisolta.
Nonostante la sua abbondante durata Wonder Woman, trascura dunque molte delle sue potenzialità, abbozzando rozzamente tutti quei personaggi di contorno che avrebbero potuto costituire la sua forza, aprendo magari ora a tematiche orrorifiche (la Dott.ssa Maru) ora a squarci comico-distensivi (la squadra del soldato Trevor, un interessante crogiolo di misfits). Il tutto per lasciare maggiore spazio alla nascita di un’eroina e alla correlata retorica superomistica. Ma costruire un cinecomic attorno a concetti altisonanti come “verità” e “amore” non è cosa facile, e se lo scopo ultimo è poi comprendere che gli uomini sono mezzi buoni e mezzi cattivi o, peggio, come declama Ares durante lo scontro finale che sono “brutti”, la cosa risulta alquanto deludente, se non risibile. Lo spettatore, d’altronde, certe cose le sa già da tempo.

Info
Il trailer di Wonder Woman.
La pagina dedicata al film sul sito della Warner Bros.
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