Tonya

Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2017 e distribuito nella sale italiane dalla Lucky Red, il biopic sportivo Tonya di Craig Gillespie è il vulcanico ritratto di una fantastica perdente, di un diamante grezzo che ha dovuto fare i conti – sempre – con un ambiente ostile, dal duro contesto sociale e famigliare al dorato e ipocrita mondo del pattinaggio artistico, tutto ampi sorrisi, tutine immacolate e fidanzatine d’America. Caleidoscopica confezione scorsesiana e memorabili performance di Margot Robbie e Allison Janney.

Pattini d’argento

La storia vera della pattinatrice di fama mondiale Tonya Harding. Conosciuta per il temperamento focoso, Tonya fu protagonista di una carriera eccezionale e di uno degli scandali più grandi della storia degli Stati Uniti. Cresciuta in un clima di perenne conflitto con una madre violenta, Tonya dovette combattere per tutto ciò che aveva. Malgrado fosse una pattinatrice tecnicamente compiuta, convincere i giudici si dimostrò assai difficile: venne criticata infatti per la sua mancanza di maestria e per la bellezza sciatta. Quando incontrò Jeff Gillooly, questi le garantì la tanto attesa fuga dalla madre, una voce incoraggiante nel suo angolo e, fatalmente, una serie di connessioni con uno squallido sottobosco… [sinossi]
You think I’d crumble? You think I’d lay down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I’ll stay alive,
I’ve got all my life to live, I’ve got all my love to give,
And I’ll survive, I will survive
Gloria Gaynor – I will survive

L’ironico e beffardo Tonya è una pioggia torrenziale di suggestioni. Difficile, ad esempio, non pensare al totem Scorsese e al suo cinema, qui evidentemente evocato e preso a modello, e di rimando al talentuoso ma spesso fatuo David O. Russell, altro naturale termine di paragone. È più che ovvio, poi, dedicare qualche riflessione a Craig Gillespie, regista che forse ha preso il treno per diventare autore, dopo aver dato buona prova di sé con Lars e una ragazza tutta sua e aver rischiato di impantanarsi in un percorso dorato ma meno fertile con L’ultima tempesta. Ci sono poi gli anni Settanta, quelli di Tonya ancora bimbetta, tutta pattini e passione, che danno il tono e il ritmo alla pellicola anche per i successivi anni Ottanta: montaggio serrato, colonna sonora da urlo, personaggi così incredibili da essere dannatamente reali, ironia, cinismo, macchina da presa mai doma. Scorsese, appunto, con quei frenetici cambi di ritmo, tono, formato e i sussulti della colonna sonora programmaticamente trascinante. E l’eterno ritorno a quella sorta di bizzarra innocenza perduta che sono stati gli anni Settanta del grande schermo – la Nuova Hollywood, ovvero il centro di tutto – e sul grande schermo, quando anche l’ultimo dei reietti aveva uno spessore narrativo, estetico e morale probabilmente irripetibile.

Tonya è un meccanismo visivo/narrativo preziosamente intarsiato, un giocattolo che sfodera senza remore tutte le proprie armi: il mockumentary, l’accuratezza filologica, la rottura della quarta parete, gli anni Settanta che ci aspettiamo (e che solleticano il nostro immaginario, inevitabilmente filtrato e al tempo stesso creato dal grande schermo), tra musiche, vestiti, colori e quel mood così seducente, la romantica rivincita (e sconfitta) degli eterni loser, perdenti a trecentosessanta gradi, sul campo come nella vita.
Ed ecco qui un’altra suggestione, forse la più importante, figlia di un concetto centrale dello sport: «sul campo come nella vita» diceva col suo stile schietto Nereo Rocco, l’indimenticabile paròn. Lo stile aggressivo, mascolino, potente e prepotente di Tonya Harding rispecchiava perfettamente la parabola umana, l’estrazione sociale e culturale, la famiglia disastrata, la madre soffocante, quella necessità di non piegarsi, di cercare e trovare il riscatto a ogni costo. Senza grazia, ma coi pattini che volano sospinti da una rabbia costante, da una fisicità persino goffa se paragonata alle movenze da ballerina delle rivali, in primis la Kerrigan. In questo film che sequenza dopo sequenza, immagine dopo immagine, continua a mettere una contro l’altra finzione e realtà, menzogna e verità, è la contrapposizione tra i gesti la chiave di lettura umana, sociale e sportiva. Gesti sportivi eclatanti, straordinari, come il triplo axel che nel mondo era riuscito solo a Midori Itō (che prese il punteggio massimo, una chimera per la bistrattata Harding); gesti minimi, come la smorfia della rivale Nancy Kerrigan sul podio dei Giochi olimpici invernali di Lillehammer, delusa dall’argento.

Tonya Harding chiude ottava a Lillehammer. La Harding di Tonya avrebbe indossato con gioia incontenibile quei pattini d’argento. Gesti, appunto. Come nella vita. Nel ricomporre pezzo dopo pezzo questo caleidoscopico biopic, Gillespie tratteggia un corposo e stratificato racconto sportivo, capace di sondare gli aspetti psicologici della vita di un atleta, ma anche e soprattutto la centralità del gesto tecnico e ginnico, la distanza abissale (e probabilmente incolmabile) tra il tanto decantato stile e la concreta efficacia.
Viene in mente un altro confronto tra campioni distantissimi tra loro, Borg McEnroe, passato alla Festa del Cinema di Roma 2017 a breve distanza da Tonya e già nelle sale: la disumana continuità dello svedese contro l’imprevedibile genialità dello statunitense. In questo caso, quello che ci interessa è l’unicità dei gesti tecnici di McEnroe, tanto straordinari quanto non replicabili. Il gioco sui generis del focoso tennista è quanto di più distante si possa immaginare da una scuola tennis: «la bizzarra posizione di servizio di McEnroe, aperta e con le braccia rigide, con entrambi i piedi paralleli alla linea di fondo e il fianco rivolto così rigorosamente alla rete che sembra una figura su un fregio egizio», scrisse David Foster Wallace. I gesti di McEnroe non hanno mai dovuto scalare le invalicabili catene montuose che ostacolavano la Harding: la femminilità, la classe, le tutine d’ordinanza, quei punteggi fatti di velenosi decimali. E così torniamo al triplo axel della Itō e a tutti quei 6.0 e al triplo axel della Harding e a tutti quei 5.9. I gesti divini di McEnroe. I gesti faticosamente costruiti della Harding. I gesti impuniti dei giudici.

Gillespie mischia le carte, svia la nostra attenzione, ci abbaglia con la confezione, con le performance strepitose di Margot Robbie e Allison Janney. Riesce a farsi beffe anche del cinema del reale, mostrandoci quanto sia esile la verità, quanto sia decisivo il punto di vista. E Gillespie non guarda mai dall’alto, ma si butta in mezzo a tutte queste ossessioni della vita e dello sport, in mezzo a un sogno americano inacidito e distorto, tra personaggi paradossali, ridicoli, tragici. Tonya è anche una cronaca degli anni Ottanta, dell’humus reaganiano, dell’orgoglio mullet, della provincia campagnola, grigia, incatenata al suo destino. Padri e madri che condannano i propri figli. Vittorie inseguite e mancate, sul ghiaccio, sul parquet, su qualche prato verde, su un ring, su una pista – ancora una suggestione: dopo due fiacchi lungometraggi (Prefontaine, Without Limits), quanto dovrà aspettare lo sventurato Steve Prefontaine per essere reso immortale dal grande schermo? Anche lui, alle Olimpiadi di Monaco di Baviera 1972, si esibì in una sorta di folle e coraggiosissimo triplo axel.

La festa è finita, gli amici se ne vanno. Il tritacarne mediatico che aveva travolto la Harding si arresta di colpo. La campionessa mancata e il suo circo di freak vengono spazzati via da un nuovo dirompente caso giudiziario. Il colosso O.J. Simpson, con tutto quel sangue, la questione razziale, il cinema e il football, è il tornado che riporta questa stramba Dorothy alla sua quotidianità in bianco e nero. In un certo senso, Tonya è la sua Oz, il suo risarcimento.

Info
Il trailer originale di Tonya.
La scheda di Tonya sul sito di Roma 2017.
La scheda di Tonya sul sito della Lucky Red.
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