Figlia mia

Figlia mia

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Figlia mia di Laura Bispuri, in concorso alla Berlinale e in uscita in sala in Italia, mette in mostra una lunga serie di difetti endemici, da una scrittura frettolosa a un’astrazione ingiustificata, che finisce per eliminare qualsiasi reale ‘sangue’ a una vicenda fin troppo schematica. Un’operazione a tavolino poco coinvolgente.

Madri

Vittoria è una bambina divisa tra due madri. Valeria Golino è Tina, madre amorevole che vive in rapporto simbiotico con la piccola e Alba Rohrwacher è Angelica, una donna fragile e istintiva, dalla vita scombinata. Rotto il patto segreto che le lega sin dalla sua nascita, le due donne si contendono l’amore di una figlia… [sinossi]

Ha l’aria di un film conflittuale Figlia mia, opera seconda di Laura Bispuri che arriva in sala mentre il giudizio della Berlinale – dove è stato presentato in concorso, stesso destino accorso tre anni fa all’esordio Vergine giurata –, e lo dimostra fin dalla scelta della location, quella Sardegna brulla e selvaggia che può però portare in dote una Film Commission efficiente… Ha l’aria di un film conflittuale Figlia mia, conflittuale almeno quanto le sue due donne protagoniste, entrambe proletarie ma dall’animo profondamente diverso, quasi opposto: Tina è borghese, gentile e amorevole, mentre la più giovane Angelica ha istinti meno strutturati, quasi punk nella volontà di non accettare dogmi, regole di comportamento, prassi sociali consolidate. Il punto in comune, come evidenzia il titolo, è la piccola Vittoria, bambina di dieci anni che di una – Angelica – è la figlia naturale, e dell’altra è la figlia adottiva. A sua insaputa, ovviamente. Quando questo mistero viene svelato e la bambina inizia a frequentare anche la madre biologica, i nodi verranno al pettine. Non usa mezzi termini Laura Bispuri per inscenare il suo dramma familiare che dovrebbe (almeno sulla carta) ragionare sul significato di procreazione e di allevamento: fa aprire la sua storia nello scenario quasi western di un rodeo e la fa proseguire tra rocce cave, mare cristallino e fattorie in bancarotta. Ha l’intuizione, di per sé tutt’altro che banale, di raccontare l’Italia di questi anni partendo da una serie pressoché infinita di duelli: la lotta per tenersi la casa – ma mancano quasi trentamila euro ad Angelica, e nessuno dei suoi conoscenti ha la possibilità di aiutarla –, per tenersi la figlia, per tenersi l’esistenza che con gran fatica si è portata avanti nel corso degli anni. Ma un’intuizione non fa un film…

Figlia mia evidenzia una lunga serie di difetti, forse in parte perfino endemici dell’approccio alla regia di Bispuri. Non giova di certo al film una produzione che sembra aver preso a modello in maniera troppo rigida lo stile e le atmosfere cui Alice Rohrwacher – per di più sorella di una delle due protagoniste – ha abituato il pubblico festivaliero: la regia sembra quasi ingabbiata in soluzioni visive preconcette, prive di quella libertà che in realtà invece in scena viene ripetutamente sbandierata in faccia al pubblico nel personaggio di Angelica. Né viene in soccorso una sceneggiatura frettolosa, che abbandona con troppa rapidità temi anche centrali non solo dello sviluppo narrativo, ma anche del sottotesto politico e poetico che si sta portando avanti (si prenda ad esempio il modo in cui si svicola dal raccontare proprio il destino di Angelica). E, eccezion fatta per la già citata presenza della Film Commission, davvero si fatica a comprendere il valore dell’ambientazione sarda, del tutto slegata da un reale rapporto per le protagoniste e portatrice per occhio della Bispuri di un immaginario asettico, depauperato di qualsiasi valore antropologico: quasi un non-luogo, come quelle buche nel terreno in cui Vittoria dovrebbe imparare a calarsi per “diventare donna”.

Privo di un fascino misterico e claudicante sotto il profilo strettamente narrativo, Figlia mia scoperchia davanti agli occhi del pubblico i problemi di un cinema studiato in provetta, costruito a tavolino senza che vi pulsi dentro la vita. Non c’è reale dolore, né partecipazione, nella messa in scena di Figlia mia, così come il fin troppo abusato pedinamento zavattiniano mostra la sua incapacità – in mani immature – a trasformare l’immagine in senso, e a farsi una volta per tutte sguardo. Ha l’aria di un film conflittuale l’opera seconda di Laura Bispuri, ma in realtà nasconde al proprio interno una visione comoda del cinema, sia come macchina dell’immaginario sia, ed è ancora più grave, come racconto dell’umano. Tutto appare al contrario sterilizzato, pulito là dove dovrebbe grondare sudore, sangue, volgo. Anche la vita sbandata di Alba Rohrwacher (poco ispirate sia lei che una stanca Valeria Golino: l’unica a risollevare le sorti è la giovanissima Sara Casu) sembra totalmente controllata da Bispuri, e assoggettata al suo volere. In un percorso metaforico didascalico e fin troppo facile perfino nella conclusione (si può avere una madre borghese e una madre imbastardita, e imparare da entrambe…), Figlia mia prosciuga ogni sintomo di vita, e lo riduce a immagine preconfezionata e buona per l’uso. Anche per l’esportazione. Al secondo capitolo della sua carriera da regista Laura Bispuri inizia a mostrare con forza le prove di una visione preoccupante, o per lo meno poco interessante, del cinema e della vita.

Info
Il trailer di Figlia mia.
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