Wajib – Invito al matrimonio

Wajib – Invito al matrimonio

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Andarsene, rimanere. Combattere da lontano, piegarsi al compromesso. Wajib – Invito al matrimonio di Annemarie Jacir conserva un solido impianto di cinema popolare per tornare a parlare della questione palestinese. Mohammad Bakri e Saleh Bakri come protagonisti, padre e figlio anche nella vita.

In equilibrio

Nella Nazareth di oggi, il giovane Shadi rientra dall’Italia per il matrimonio di sua sorella, che sta per sposarsi in prossimità del Natale. Secondo un’usanza locale gli uomini di famiglia devono recarsi casa per casa a portare agli invitati le partecipazioni di matrimonio. Shadi accompagna in automobile suo padre, Abu Shadi, su e giù per Nazareth per svolgere il compito, e l’occasione è buona per confrontarsi sulle rispettive scelte di vita, visioni dell’esistenza, reazioni alle locali condizioni di vita sotto il controllo pressante delle autorità israeliane… [sinossi]

Selezionato per rappresentare la Palestina agli Oscar 2018 per il miglior film straniero senza entrare nella cinquina finale, Wajib – Invito al matrimonio di Annemarie Jacir si presenta innanzitutto come un solido film d’impegno e di consumo. Costruito su una semplice idea di partenza ma già appuntata su un intento di documento antropologico (il wajib, ossia l’usanza locale, tipica della Palestina del Nord, che assegna agli uomini della famiglia il compito di portare le partecipazioni di matrimonio casa per casa), il film si dipana per buona parte su una situazione narrativa fissa e iterata. Padre e figlio in automobile, a percorrere in lungo e in largo la città di Nazareth, con soste più o meno lunghe presso gli invitati, che lasciano spazio a brevi ritratti spesso caratterizzati da un garbato senso dell’umorismo. L’intento è anche quello di raccontare una Palestina urbana (Nazareth conta circa 75.000 abitanti), inquadrata nella sua soffocante fisionomia di assedio quotidiano sotto il controllo delle autorità israeliane.
Annemarie Jacir sceglie di raccontare tale senso di oppressione tramite frammenti che entrano tangenzialmente nel quadro, a volte anche solo tramite una breve immagine colta al volo dall’automobile svoltando in una curva (quei soldati fuggevolmente inquadrati).

In tal modo Wajib – Invito al matrimonio riesce a restituire il senso di un contesto sociale che cerca faticosamente forme proprie a un’idea di normalità, laddove normalità si rivela per un termine che accoglie nel suo significato anche vivere come prigionieri, con limitate libertà di pensiero e d’azione, e soprattutto custodendo gelosamente manifestazioni di rito e cultura che nella loro continuità garantiscano il conforto dell’identità. Se il wajib, l’usanza di portare a mano le partecipazioni, si profila in tal senso come una scelta indicativa fin dal titolo dell’opera, resta su tale solco anche l’insistito entusiasmo della figura del padre, Abu Shadi, che si profonde da inizio a fine per regalare alla figlia un bel matrimonio e per coinvolgere nella cerimonia quanti più amici e parenti possibili. Il perenne sorriso sulle labbra di Abu Shadi, che spesso si alterna a malinconie e mestizie, dà conto di un intimo sforzo per sentire normalità, raccontarsela, cercare di convincersi che tutto sommato la propria vita non è poi così terribile anche se il suo alto prezzo è il silenzio, il rispetto di regole disumane, l’assopimento della coscienza. Perché per raccontarsi quella normalità e per ambire anche a qualche forma di progressione sociale (lui, insegnante, vuol diventare preside) è necessario mischiare nella calda accoglienza e nell’entusiasmo del rito anche il suo rovescio, ossia tenere buoni rapporti e più ampi possibili per garantirsi una buona vita e timidi benefici, coltivare una rete di relazioni che possano contribuire all’illusione della stessa normalità e regalare qualche soddisfazione personale.

Seguendo un consolidato schema narrativo, Annemarie Jacir affida la questione palestinese a un serrato confronto generazionale tra padre e figlio. Se Abu Shadi non ha mai accettato di lasciare la propria terra (mentre pure la moglie se n’è andata all’estero al seguito di un altro uomo) ed è sceso a infiniti compromessi per garantire una vita dignitosa alla sua famiglia, suo figlio Shadi si è invece trasferito in Italia e porta con sé tutta la rabbia dell’amore per il proprio paese, tipico di chi è dovuto fuggire per avere migliori condizioni di vita e soprattutto di chi non si piega alla quotidiana ingiustizia politico-sociale. Il confronto tra i due costituisce il corpo sostanziale del film ed è anche svolto con ampie schematizzazioni. Negli scambi tra padre e figlio, spesso didascalici ed esemplificativi, scorrono tutti i maggiori temi relativi alla questione palestinese, delineando le due figure come due immagini macroscopiche di pensiero e posizionamento politico-culturale.
Ma d’altra parte, come sottolinea la stessa Annemarie Jacir, «La vita è politica», specie in luoghi come la Palestina, dove da decenni la vita quotidiana è scandita dalla rivendicazione dell’esserci. Wajib – Invito al matrimonio tradisce un marcato desiderio di racconto classico, che in tal senso possa veicolare enormi questioni tramite un linguaggio di ampia accessibilità popolare. La stessa adesione a un tòpos narrativo come il rapporto padre/figlio si profila come una scelta forte verso un pubblico discretamente ampio, che accanto alla riflessione politico-sociale sia pure messo in grado di appassionarsi, commuoversi e riconoscersi in un assoluto culturale, funzionale anzi a facilitare l’approccio alle complesse dinamiche locali.

All’interno di questa impostazione generale Wajib – Invito al matrimonio vuole anche mostrare una Palestina a suo modo “borghese”, dove a fronte del terrore politico e di dolorosi sacrifici della coscienza si può condurre anche una vita scandita dai tempi e dalle occasioni che regolano il vivere sociale in ogni dove. Si tratta anzi di una piccola borghesia illuminata, calorosa, aperta pure alla convivenza tra differenti credi religiosi (Nazareth contiene un 60% di islamici e un 40% di cristiani, mentre gli israeliani sono in netta minoranza poiché per lo più si rifiutano di viverci, disertando anche un quartiere costruito appositamente per loro). Di nuovo, in un film che si muove per assoluti, ritorna un altro tema di portata universale, quello del coraggio. Se sia cioè più coraggioso andarsene o rimanere, andare altrove per poter difendere più liberamente la propria terra o restare a combattere giorno dopo giorno, semplicemente tramite la propria esistenza quotidiana. Scendendo a compromessi, tradendo un po’ se stessi, invitando israeliani a un matrimonio non tanto per apertura culturale ma per tornaconto personale. La battaglia quotidiana di chi, già vivendo lì e occupando uno spazio fisico, rivendica la propria esistenza al prezzo di un’infinità di compromessi. Se il mood generale si mantiene a suo modo pure lieve e garbato, tuttavia aleggia costantemente sul film il fantasma della morte, che dall’incipit si ripresenta sotto varie forme lungo il tracciato del racconto. Forse la vita in morte, quando è schiacciata dall’asfissia di una vera libertà.

Annemarie Jacir duplica il livello di conflitto convocando nei ruoli di protagonisti due attori che nella vita sono davvero padre e figlio. Il padre è impersonato dal glorioso Mohammad Bakri (tra gli altri, incarnò il personaggio principale per Saverio Costanzo nel suo Private, 2004), che nel corso degli anni più volte si è scontrato con le autorità israeliane anche per la sua attività di filmmaker – basti pensare alle infinite traversie del suo documentario Jenin, Jenin (2002) dedicato alla distruzione dell’omonimo villaggio palestinese. Nel film di Annemarie Jacir gli tiene testa suo figlio Saleh Bakri, coinvolti in due prove attoriali di cifra sensibilmente diversa. Da un lato Mohammad Bakri emerge sul figlio grazie a una gamma infinita di emozioni lasciate trascorrere sul volto: dall’altro Saleh Bakri si mostra come un attore più introverso, caratterizzato anche da un lieve senso dell’umorismo affidato spesso a una mimica rallentata. Convocati a dare vita a un racconto pure convenzionale, dove somma premura dell’autrice pare essere una studiata equidistanza dalle due figure, indagate nel loro confrontarsi senza operare nette scelte programmatiche nei confronti di uno o dell’altro. Il finale, del resto, sta lì a marcare un lieve e reciproco avvicinamento simmetrico, dove da ambo i lati si accende una sorta di alba della comprensione e accettazione dell’altro. In fondo la stessa equidistanza al bilancino costituisce programmaticità. Resta comunque un generale senso di necessità davanti a un film che cerca chiavi popolari per temi di grande portata, aderendo a una struttura narrativa a suo modo avvincente, che si offre a un pubblico ampio e a un’immediata partecipazione. Buono, come una buona azione.

Info
Il trailer di Wajib – Invito al matrimonio.
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