Diabolik sono io

Diabolik sono io

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Giancarlo Soldi in Diabolik sono io sfrutta poco saggiamente le libertà concesse dal documentario, parzialmente offuscando, dopo averle scovate, le affascinanti, tortuose, lacunose vicende di una piccola epopea di provincia. Ne esce il ritratto schizofrenico e un po’ distratto di un’impresa femminile nel maschilissimo regno del fumetto.

Un’anima divisa in due

Nel 1962 esce il primo numero di “Diabolik”, scritto dalle sorelle Giussani e disegnato da Angelo Zarcone. Personaggio quasi più misterioso ed enigmatico del suo eroe a fumetti, Zarcone scompare poco dopo senza lasciare tracce né informazioni sul suo conto. Giancarlo Soldi, filmmaker appassionato di fumetti, ricostruisce le origini del mito inventato dalle sorelle Giussani e dai loro collaboratori, intrecciando le testimonianze e i documenti a un romanzo noir che sovrappone il personaggio in calzamaglia al suo originario primo e misterioso disegnatore. [sinossi]

Il documentario più che un genere o uno stile, più che un metodo produttivo o un approccio registico, è diventato ormai una vasta terra di conquista, un orizzonte aperto entro il quale si trovano l’uno affianco all’altro cimenti estetici liberi ed eccentrici, e avventure commerciali tra le più fantasiose e spregiudicate. Non di rado le due cose coesistono in unico corpo, magari poco aggraziato eppure vivo. Accanto ai sempre più numerosi “filoni aurei” che corrono dentro la pancia sempre più gonfia del documentario – dal biopic rock al film sull’arte, dallo spettacolo tecnologicamente iperbolico della Natura al film sportivo -, Giancarlo Soldi sembra aver scovato una sua traiettoria personale e possibile: il film sui fumetti. Diabolik sono io intreccia i due fili diversi e distanti del racconto documentaristico composto d’archivi e di interviste insieme alla narrazione finzionale di genere che, sfruttando il volto e il corpo dell’attore Luciano Scarpa, confonde dentro una suggestione a dire il vero piuttosto macchinosa la figura di Zarcone e quella del suo eroe a fumetti, lungo una pseudo-narrazione che ricalca il modello della pagina disegnata in una sua improbabile versione cinematografica.

Le due parti di Diabolik sono io fanno fatica a stare una dentro l’altra, eppure qualcosa delle interviste registrate nel presente ai protagonisti dell’epopea di carta – dal direttore Gomboli allo sceneggiatore Faraci – e ad alcuni “esperti” – dallo scrittore Lucarelli al costumista al costumista Parrini fino ai fratelli registi Marco e Antonio Manetti – risuona e riecheggia nella pur goffa orchestrazione con gli attori che sembra funzionare come una sorta d’illustrazione, di didascalia in movimento per alcune delle idee che fanno da filo del discorso attraverso i vari interventi collezionati da Soldi nel suo film.
Il dislivello però tra il fascino e il peso specifico delle interviste d’epoca alle sorelle Giussani, delle rare foto, delle tavole e dei bozzetti e le interviste ai testimoni di oggi, un po’ sciatte, tagliate corte, agglomerate intorno a ipotesi e categorie rigide e stantie, è l’origine di una fastidiosa distrazione continua. L’andirivieni tra la ricostruzione raccontata e quella messa in scena con gli attori poi non fa che peggiorare le cose, spezzando e disperdendo l’indiscutibile patrimonio di mistero e di leggenda al fondo di questa storia a suo modo tipicamente italiana. Una storia dal potenziale particolarmente fecondo anche solo per come sarebbe stato possibile usarla anche come squarcio profondo nel tessuto di culture e immaginari che animava e in certa misura ancora anima il nebuloso e sconfinato paesaggio della provincia nostrana.

All’inizio e alla fine di Diabolik sono io sembra palesarsi più esplicita e manifesta la passione del regista per la materia che racconta, con una sapida e incalzante collezione di aneddoti e notazioni che riconducono nei ritmi e nelle forme del giallo e del noir le vicende intorno alla fondazione del mito e alle fasi subito successive. Il resto del film però dissipa la nebbia densa di questa epopea di provincia – peraltro, eccezionalmente agita quasi da sole donne -, confidando fin troppo nel nero artificioso del racconto interpretato dagli attori, e lasciando che i molti e preziosi materiali, i diversi temi e i diversi fili del discorso siano frettolosamente masticati e sputati dalle molte, troppe voci che si susseguono con ritmo televisivo succedendosi l’una dopo l’altra fino al brillante epilogo.

Info
Il trailer di Diabolik sono io.
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