Le verità

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Con Le verità Hirokazu Kore-eda, fresco di Palma d’Oro al Festival di Cannes 2018, torna alla Mostra di Venezia (aprendola ufficialmente) per il suo primo film prodotto al di fuori del Giappone. La Francia accoglie il regista nipponico per una storia sul/nel cinema che diventa un omaggio al monolite Catherine Deneuve, monumentale nella parte della protagonista.

Oui, je suis Catherine Deneuve

Fabienne, da decenni diva di primo piano del cinema francese, ha scritto un libro con le sue memorie. Per celebrarne l’uscita e starle vicino durante le riprese di un nuovo film, sua figlia Lumir torna a Parigi da New York, dove vive, assieme alla figlia e al marito americano che la madre ha visto solo al matrimonio… [sinossi]

La Mostra del Cinema di Venezia apre le danze del Concorso con Le verità, prima “trasferta” internazionale della Palma d’Oro Hirokazu Kore-eda, il regista giapponese più in auge del momento che proprio Venezia aveva scoperto nel lontano 1995 con il suo bellissimo esordio, Maborosi. È la Francia, però, a offrirgli la possibilità di una coproduzione parigina che Kore-eda pare accettare come una sfida stimolante su di un aspetto fondamentale per qualunque regista, di qualunque latitudine o Paese: il ruolo dell’attore. Sono infatti gli attori, o sarebbe meglio dire le attrici, il centro gravitazionale de Le verità in cui si ritrovano molti dei temi ricorrenti di Kore-eda (i delicati equilibri nei rapporti famigliari, i dilemmi morali sulla menzogna, le ferite patite e le riconciliazioni possibili) ma declinati a distanza di sicurezza, come fossero i giornalieri rivisti sullo schermo del set in cui la protagonista del film – un’attrice appunto – sta recitando. Il tratto malinconico e sentimentale tipico del suo cinema si stempera e Kore-eda realizza così una commedia divertita in cui l’emozione delle tante sfumature lascia campo libero a un’artificiosa leggerezza. Non siamo infatti di fronte ai “ladruncoli” di Un affare di famiglia o alle giovani donne di Kamakura di Little Sister. E il pubblico occidentale non si troverà di fronte ad attori magari enormi o celebri in Giappone ma per lo più ignoti al (bel?) mondo. Ne La Vérité siamo di fronte a Catherine Deneuve che fa Catherine Deneuve, di fronte a un’attrice leggendaria, alla metonimia della cinema europeo che interpreta praticamente se stessa con la propria aura e il mistero che incarna. Il regista mette un enorme filtro che gli consente di fare due, o anche più, passi indietro per guardare senza aderire, tradurre in immagini mai veramente drammatiche conflitti che altrove avrebbero dato vita a un racconto pieno di tormento e dolore. Ma qui, nel mondo del cinema, della costruzione dei miti e del piacere di crederci, non è così.

Kore-eda ha ripreso per Le verità un soggetto che aveva scritto molti anni fa. Ma è il cast la qualità essenziale che fa la differenza di un film in cui la musa francese si interpreta per come pensiamo che sia, per come vorremmo che fosse, per come presumiamo debba essere. Forte, dispotica, crudele, menefreghista, sublime, elegante, superiore alla morale e alla realtà, ignobile, una perciò superba, straordinaria Catherine Deneuve interpreta Fabienne e “guida” – anche nelle scene in cui, come una chioccia egotica, cammina sempre davanti a tutti – gli altri attori principali ossia Juliette Binoche nella parte di sua figlia Lumir ed Ethan Hawke nella parte del marito di Lumir. Ovviamente Fabienne, come da copione, è stata assente durante l’infanzia della figliola (sebbene nelle sue memorie fresche di stampa l’attrice sostenga il contrario), per la quale è stata ugualmente ingombrante come pietra di paragone, monito costante, dover essere impossibile. Lumir (che da ragazzina voleva recitare ma poi si è dedicata alla sceneggiatura) è sospinta da recriminazioni di vario genere: tra le molte accuse mosse all’ormai vecchia madre aleggia anche quella di aver “ucciso” almeno moralmente un’altra attrice della sua epoca, Sarah, che per tutto il film sarà un fantasma ricorrente, un rimosso occultato, un sacrificio necessario alla gloria di Fabienne. La Binoche, grande attrice di una generazione in cui il cinema è meno impattante sull’immaginario collettivo, si presta volentieri a far rifulgere il narcisismo ontologico della Deneuve, l’originale cui è impossibile sottrarsi, il modello che muove il sole e le altre stelle e soprattutto tutti quelli che ha intorno cui in fondo (tralasciando apparenti moine) non importa mai nel film se di verità o menzogna si tratti, se sia stato talento o fortuna o qualità superiore o capacità di manipolazione. Quel che meno importa è proprio la verità evocata dal titolo, tanto che la “riconciliazione” tra madre e figlia avverrà nel finale attraverso recite e finzioni ma perfettamente funzionanti. Ethan Hawke è Hank, il marito americano di Lumir, un attore di serie B negli Usa, magari affascinato dal magnetismo potente di Fabienne ma un po’ più scettico (del resto fa serie tv che passano anche su youtube) circa gli effetti taumaturgici o traumatici che questo carisma può causare. In una parte piccolissima quanto significativa, Hank – che capisce il francese ma non parla francese e viene sempre tagliato fuori dalle conversazioni – è lo straniero sulla scena europea delle sacrali dinamiche narrate: se non è il punto di vista di Kore-eda (e non lo è) certamente il suo personaggio gode di una sana distanza rispetto a ciò che vede ma che nessun altro vuole o può permettersi. Discorso a parte merita Charlotte (Clémentine Grenier), la figlia di Lumir e Hank, che a differenza del padre parla un perfetto francese e che immagina la nonna come una strega buona e cattiva a un tempo, capace di sortilegi e incantesimi cui volentieri gli adulti soccombono. Ma è un mondo di “magia” ancora infantile, primaria e ben diversa dalla magia orchestrata degli adulti.

L’approccio francese di Hirokazu Kore-eda è esplorativo e ben consapevole sia della sua non appartenenza sostanziale alla “materia vivente” messa in scena che del cinema come fonte di menzogne destinate a diventare vere, di repliche infinite che tornano dal passato mai veramente perduto, di citazioni e calchi. In questo senso le immagini più rivelatrici de Le verità sono quelle del film che Fabienne sta girando e che, non a caso, parla del rapporto tra una madre che non invecchia mai (come il mito) e di una figlia che invece cresce e diventa anziana: le scene vengono provate, recitate, riviste nei monitor, distanziate e moltiplicate. Doppia, anche contro la propria volontà, è persino la giovane protagonista del film nel film, Manon Clavev, che a detta di molti ricorda Sarah, l’attrice-rivale di Fabienne morta molti anni prima: in questo contesto da Eva contro Eva e di replicanti ridestati per non interrompere mai il rito del cinema, Kore-eda riesuma addirittura (come dono di “investitura” che Fabienne farà a Manon) il vestito nero col colletto bianco indossato dalla Deneuve stessa in Bella di giorno. La Vérité è un monumento in onore di Catherine Deneuve e un’impertinente (talvolta sarcastico) interrogativo sulla consistenza materica di questo monumento di carne, di stoffa, di luce, che tutti ammirano, cui tutti si piegano, che tutti ammalia. In primo luogo gli spettatori. Il “viaggio all’estero” di Kore-eda si prende la libertà di dissezionare oggetti famigliari ed esotici con lo sguardo di chi li conosce bene e al tempo stesso non ne è coinvolto fino in fondo, di trattare il cinema d’autore europeo (da Buñuel a Bergman, da Almodóvar ad Assayas, solo per citare i riferimenti più evidenti) con giocoso divertimento. Questa libertà leggiadra conduce Kore-eda a un film più intelligente che appassionante, più ironico che coinvolgente, ben incastonato nella carriera del regista che non rinuncia alla sua sensibilità ma la traduce e adatta per percorrere un territorio straniero. Che non è solo la Francia (o l’Europa) quanto la possibilità di lavorare con celebrati attori, un fattore mutageno che ineluttabilmente condiziona la verità costruita da un film.

Info
Le verità sul sito della Biennale.

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