Judy

Biopic piuttosto canonico dedicato al crepuscolo artistico e umano di Judy Garland, il film di Rupert Goold trova un pur relativo riscatto in un finale straziante e sincero. Nonostante le grandi critiche ottenute oltreoceano delude invece la performance di Renée Zellweger, affidata per lo più a una lunga sequela di birignao. Alla Festa del Cinema di Roma.

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Nell’ultimo periodo della sua vita, Judy Garland è ancora un nome che suscita ammirazione e il ricordo di un’età dell’oro del cinema americano, ma è anche sola, divorziata quattro volte, senza più la voce di una volta, senza un soldo e senza un contratto, perché ritenuta inaffidabile e dunque non assicurabile. Per amore dei figli più piccoli, è costretta ad accettare una tournée canora a Londra, ma il ritorno sul palco risveglia anche i fantasmi che la perseguitano da sempre. [sinossi]

Judy è un film che produttivamente approfitta di una serie di concatenazioni d’eventi e di tendenze: approfitta della lunga scia rilasciata dai successi tanto di Bohemian Rhapsody quanto di Rocketman, ma anche di un film come A Star is Born, che nella versione di George Cukor del 1954 si avvale proprio dell’interpretazione sublime di Judy Garland. Allo stesso tempo, rimanendo al luogo in cui il film di Rupert Goold si è visto per la prima volta in Italia – l’Auditorium Parco della Musica a Roma, epicentro delle attività della Festa del Cinema –, è impossibile non far muovere le sinapsi in direzione di Stanlio & Ollio, il film che Jon S. Baird dedicò un anno fa alla coppia comica più celebre della storia del cinema. Storia del cinema che molto deve a Garland, che fu giovanissima starlette ne Il mago di Oz prima di impreziosire molte gemme del film musicale, dall’indispensabile Incontriamoci a St. Louis di Vincente Minnelli – che divenne il suo secondo marito quando l’attrice aveva poco più di venti anni – fino al già citato capolavoro di Cukor, ma dimostrando la propria versatilità anche in opere quali Vincitori e vinti di Stanley Kramer o Gli esclusi di John Cassavetes. È interessante notare che Judy, come avveniva nel caso del film dedicato a Laurel e Hardy, sia affidato alle cure di un regista anonimo, privo di particolari velleità ma semmai, per giocare con le aggettivazioni, solido.

Goold dopotutto ha ben chiaro ciò che deve fare con lo script redatto da Tom Edge (tante serie televisive nel suo curriculum, aspetto che delinea con fin troppa precisione la struttura narrativa ordita per questo film): metterlo in scena, nel modo più piano e indolore possibile. Così Judy può permettersi di essere l’ennesimo ritratto di artista privo non solo di arte – concetto fin troppo labile per essere preso in considerazione in un’operazione commerciale di questo tipo – ma anche e soprattutto di vita. Certo, dentro vi sono condensate tutte le possibili emozioni umane, dall’amore alla delusione, dalla rabbia all’esaltazione, dalla tenerezza all’odio feroce, ma queste non appartengono realmente al personaggio. Sembrano più che altro fluttuare nell’aria, quasi dovessero essere di volta in volta scelte per costruire meglio, o in modo più appropriato, il climax narrativo. Tutto è chiaro, così chiaro da risuonare inevitabilmente falso. Judy Garland è a fine carriera, ha i debiti, non vuole perdere i suoi due figlioletti – la terza, Liza Minnelli, è oramai adulta al punto che le due si incontrano alle stesse feste – ed è alcolizzata. Chiaro, netto, inequivocabile. Per questo accetta una serie di serate a Londra, per questo si stressa sempre di più, per questo non riesce mai a portare realmente a termine quel che vorrebbe fare. Per questo approfittano di lei, come hanno sempre fatto – suggeriscono i ricordi dell’attrice e cantante. I flashback di quel che avvenne quando era sedicenne sotto contratto con Louis B. Meyer sono tra le scelte estetiche e narrative più discutibili del film eppure allo stesso tempo rappresentano i passaggi che legano fino in fondo Judy al proprio tempo, quell’epoca che potremmo definire post-Weinstein in cui i comportamenti dittatoriali dei produttori rappresentano una delle discussioni più fervide e accese. Garland, suggerisce Goold, è una vittima del sistema. Punto. Si può passare al punto successivo. Chiaro, netto. Un po’ troppo semplice però.

Ma forse è troppo pretendere complessità da un film che non ha dopotutto altro scopo se non quello di sfruttare – lui sì – la storia anche dolorosa di un’attrice per veicolare un prodotto commerciale. Perché è davvero difficile scorgere altro in questa matassa di sensi di colpa, responsabilità, memorie tragiche e fatiche quotidiane. Un film che pretende anche di allargare il discorso, ma si limita a mettere in scena una coppia omosessuale che non può dichiarare apertamente il proprio amore nell’Inghilterra puritana di fine anni Sessanta. Una mascherata, nella quale trova la sua perfetta collocazione l’interpretazione del tutto fuori tono e fuori asse di Renée Zellweger, che in molti danno già come favorita nella corsa al Premio Oscar – e va detto che può contare su un’annata hollywoodiana senza particolari ruoli femminili – e che si limita a sciorinare tutto il proprio campionario di faccette, alcune delle quali prese a prestito dalla stanca saga dedicata a Bridget Jones. C’è la smorfia da sbronza, quella corrucciata, quella innamorata, quella furbetta, quella furibonda. Ma non c’è mai vita, quella è bandita da una biografia statica, che si concede uno scarto solo nel bel finale ambientato nell’unico luogo possibile per rappresentare un personaggio come Judy Garland: il teatro. Once in a Lullaby.

Info
Il trailer di Judy.

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