Il sospetto

Il sospetto

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Alfred Hitchcock girò Il sospetto a pochi mesi di distanza da Rebecca, e i due film hanno molti punti di contatto, a partire dall’ambientazione britannica e dalla presenza in scena di Joan Fontaine (che non girerà altri film con il maestro del thriller); un’acuta riflessione sulla fiducia, sul rapporto matrimoniale, che gioca con i canoni del genere con sulfurea intelligenza.

I dubbi di Musetto di Scimmia

Lina Mackinlaw è una giovane aristocratica britannica. John Aysgarth, che invece vive di espedienti, la affascina al punto da farla cedere di fronte al suo corteggiamento. Nonostante il parere paterno del padre Lina sposa John. Ben presto però inizia a dubitare della buona fede del coniuge, e comincia a temere che l’uomo l’abbia sposata solo per poterla eliminare ereditandone la fortuna… [sinossi]
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Il sospetto, come molti dei cinquantacinque film diretti da Alfred Hitchcock nel corso della sua carriera, è tratto da un’opera letteraria, il romanzo di Anthony Berkeley Cox Before the Fact, pubblicato nel 1932 ricorrendo allo pseudonimo Francis Iles. Before the Fact, in Italia pubblicato come Giallo Mondadori con il titolo Il sospetto (anche per rimandare direttamente al film di Hitchcock), è un romanzo coraggioso, che decide fin dal suo incipit di eliminare dal contesto narrativo il principale interrogativo che di solito attraversa il genere: chi è l’assassino? All’annoso quesito Cox risponde immediatamente, visto che la sua novella principia così: «Ci sono donne che generano degli assassini, donne che li amano, donne che li sposano. Lina Aysgarth ci mise otto anni per accorgersi di aver sposato un assassino». Non ci possono dunque essere dubbi, per il lettore, su chi sia il colpevole dei delitti che nel corso dello svolgimento del romanzo avranno luogo. Per lo scrittore britannico Johnnie Aysgarth è, al di là dei suoi modi melliflui e della sua furbizia, un brutale assassino che ha come scopo ultimo quello di uccidere anche la moglie per poter godere in santa pace della cospicua eredità che riceverebbe – lei è una ricca aristocratica, lui un nullatenente che vive di piccoli espedienti frequentando l’alta società all’unico scopo di raggirarla. Il racconto, per quanto venga da subito scoperchiato il vaso delle indagini, svelando palesemente la natura reale di uno dei personaggi principali, mantiene con brillante acume il lettore impegnato sulle pagine lavorandolo ai fianchi, e immergendosi nei pensieri della moglie, la vittima designata che accetta per amore il suo destino di morte, senza battere troppo ciglio. Un romanzo decisamente ardito per l’epoca, ma che a quasi ottant’anni di distanza dalla sua pubblicazione mostra in pieno la sua età – non che questo ne sminuisca il valore, sia ben chiaro –, perché la giovane Lina non fa veramente nulla per mettere un freno alle nefandezze di questo uomo metà Barbablù metà Georges Duroy (l’antieroe di Bel Ami di Guy de Maupassant), al punto da lasciarsi uccidere bellamente per amore. O supposto tale. Un’idea affascinante, ma che accarezzò la mente di Hitchcock solo per un istante, prima di virare da tutt’altra parte. Perché, e i suoi cultori non se ne sorprenderanno, l’adattamento pensato da Hitchcock insieme a Samson Raphaelson e alle fedeli sodali Joan Harrison e Alma Reville – quest’ultima era anche la sua consorte – è assai infedele. Una sceneggiatura infedele per un film che basa gran parte della sua speculazione sul concetto di fiducia, e di fedeltà.

Per quanto nel corso degli anni Il sospetto sia finito nelle retrovie per quel che concerne la filmografia hitchcockiana, sopravanzato negli studi critici in particolar modo dalla messe di capolavori prodotti tra il 1946 e il 1963 (tanto per solleticare la brama cinefila, eccone alcuni: Notorious, Nodo alla gola, L’altro uomo, Il delitto perfetto, La finestra sul cortile, L’uomo che sapeva troppo, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Psycho, Gli uccelli), si tratta di una delle pellicole più articolate e poeticamente coerenti della prima parte della carriera hollywoodiana del regista. Hitchcock arriva dall’altra parte dell’oceano subito prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, assoldato per dirigere Rebecca, l’adattamento del romanzo di successo scritto da Daphne du Maurier, che aveva già fornito lo spunto per l’ultimo film britannico, lo splendido La taverna della Giamaica e avrebbe poi scritto il racconto alla base de Gli uccelli. È un regista inglese di comprovata professionalità e maestria – ha già diretto almeno tre film fondamentali per la costruzione per immagini della suspense, vale a dire Il pensionante, Il club dei 39 e Sabotaggio – che va a confrontarsi con l’industria più potente a livello mondiale. Gli viene chiesto di farlo portando con sé un’attitudine britannica, così come l’ambientazione e i riferimenti culturali. Il sospetto sotto questo punto di vista non può che apparire come il fratello minore di Rebecca: di nuovo un romanzo inglese, ancora una volta location che rimandano alla campagna delle contee, per un racconto che sappia profumare d’Europa agli occhi dello spettatore medio statunitense. Una porta d’accesso a Hollywood che è quella che conduce alla consacrazione interna, tanto che dopo l’Oscar al film per Rebecca, ecco che questa volta arrivano tre nomination (di nuovo miglior film, migliore colonna sonora per Franz Waxman e miglior interpretazione femminile per Joan Fontaine, che sarà l’unica a portarsi a casa la statuetta). Anche un altro aspetto, stavolta assai meno superficiale e più intessuto nel senso intimo della pellicola, collega questo film al suo predecessore: non solo la protagonista è femminile – sempre interpretata da Joan Fontaine, negli unici due incontri professionali con Hitchcock –, ma tutta la narrazione ruota attorno al modo in cui questa figura guarda l’oggetto maschile del suo desiderio, e i misteri che l’uomo con cui è sposata le nasconde. C’è un matrimonio, in entrambi i film, tra classi sociali distanti: nel primo caso una ragazza che si procura da vivere come dama di compagnia viene concupita da un ricchissimo aristocratico, mentre ne Il sospetto avviene l’opposto, con la ricca Joan Fontaine che sposa il suo corteggiatore, Cary Grant, uomo che vive di mille espedienti e di fatto non lavora. Questa distanza di classe giustifica non solo lo slittamento dello sguardo, che nel film passa da un’oggettività imparziale e “terza” alla soggettività di Lina, assalita da mille dubbi sulle reali intenzioni del marito, ma anche la scelta di Hitchcock di non mostrare mai con chiarezza cosa sta accadendo, e quale sia la verità dietro i terribili eventi che si susseguono.

Perché, qualora non fosse ancora chiaro, nella versione cinematografica Johnnie non è dichiarato come assassino, non è palesemente colpevole. Lo spettatore si trova ben presto in una terra di mezzo, in cui deve decidere abbastanza in fretta da quale parte collocarsi. Dalla parte di Johnnie, che con i suoi modi esuberanti e galanti farebbe cadere ai suoi piedi anche la regina d’Inghilterra, e che quindi – muovendo a simpatia lo spettatore – non può, non deve essere colpevole? O invece dalla parte di Lina, avida lettrice che inizia davvero a credere che quell’uomo l’abbia sposata solo ed esclusivamente per la sua eredità, e che stia pensando di far piazza pulita delle persone attorno a lei per poi sbarazzarsi definitivamente della moglie, che pure chiama con ironico affetto “Musetto di scimmia”? In questa scelta, che ognuno può operare come ritiene più consono alla propria personalità spettatoriale, si cela l’intimo disegno di Hitchcock, che prende tra le mani un giallo non consono per renderlo ancora più estremo nella sua lettura. Perché non si tratta più solo di decidere di non tradire il proprio amato anche quando si sa che esso è un criminale patentato, come supposto nel romanzo; si tratta di scegliere di procedere nella vita con qualcosa o qualcuno che non si può controllare, del quale è impensabile e impossibile avere la piena fiducia. Non è un caso che oltre a Harrison e Reville, che lo accompagneranno a lungo nel corso della sua carriera, Hitchcock abbia scelto di far lavorare alla sceneggiatura anche Samson Raphaelson, drammaturgo che al cinema legò il suo nome a quello di Ernst Lubitsch, scrivendo per lui alcuni testi fondamentali della commedia come L’allegro tenente, Mancia competente, La vedova allegra, Scrivimi fermo posta e (successivamente rispetto a Il sospetto) Il cielo può attendere: solo attraverso la deformazione della commedia sofisticata – che è uno degli elementi cardine del film, insieme ovviamente al riflesso sempiterno del gotico britannico, qui però sovente risolto alla luce del sole, altra smentita evidente rispetto alla prassi – l’ordito che vede il buono per eccellenza Grant fare incrinare le certezze dello spettatore avrebbe trovato la sua compiutezza.

Può apparire pleonastico, e quasi irridente, soffermarsi sulla maestria registica di Hitchcock, in questo caso ancora più evidente che in altre occasioni visto il budget ridotto a disposizione della produzione, eppure forse val la pena soffermarsi su due scelte estetiche così forti da aver assunto un portato quasi proverbiale. La prima, così ampiamente citata da meritare una letteratura a parte, è ovviamente tutta la parte finale del film, che va dall’attesa di Lina allettata del bicchiere di latte “avvelenato” che il marito le somministrerà fino alla corsa in macchina vicino alla scogliera a strapiombo sul mare. Basterebbe l’inquadratura del bicchiere di latte, unico elemento illuminato della scena mentre Johnnie sale le scale a chiocciola che lo condurranno nella stanza da letto della moglie per comprendere lo strapotere poetico, espressivo, e strettamente tecnico di Hitchcock. Un’inquadratura così potente da aver figliato citazioni in ogni dove, da altri film (si pensi ad esempio a Bob Hoskins ne Il viaggio di Felicia di Atom Egoyan) e non solo, come dimostra la sigla che per anni ha accompagnato le proiezioni al Torino Film Festival. Ma tutta l’ultima parte del film si muove con una destrezza unica negli intricati budelli della suspense, giocando con l’ineluttabile ma anche e soprattutto con le aspettative dello spettatore. Già, perché quel latte incriminato nessuno lo berrà mai, e quindi rimarrà sospeso il giudizio su Johnnie. Il sospetto su Johnnie. Basta una dissolvenza incrociata a Hitchcock per suggerire questo iato, questa mancanza volontaria: si passa dal viso corrucciato di Lina prima di addormentarsi al dettaglio del bicchiere, ancora pieno del suo contenuto. Di nuovo la sintassi, quell’analisi logica delle immagini di cui Hitchcock fu accademico come pochi, viene in soccorso non della limpidezza, ma della possibilità di sprofondare ancora più nel torbido. In fin dei conti Anthony Berkeley Cox ribaltava la prospettiva del romanzo giallo – si sa già chi è il colpevole, ma si riuscirà a incastrarlo? – ma non sovvertiva le regole. Hitchcock lo fa, sottolineando come ci si debba fidare, ma non si possano avere certezze della reale lealtà, della reale innocenza di chi abbiamo accanto. La seconda scelta su cui ci si sofferma di meno, ma che rappresenta in pieno la genialità di Hitchcock, è quella riguardante il refrain musicale. Tutto il film, in un modo o nell’altro, ruota attorno a Wiener Blut, valzer composto da Johann Strauss, eppure la sua interpretazione musicale cambia tonalità a seconda dello stato d’animo della protagonista. Una scelta sottile, nel modo in cui entra nel subconscio dello spettatore avvicinandolo al pensiero di Lina, senza però che se ne accorga: una riflessione ulteriore sulle necessità del visibile, unico appiglio apparente per fugare ogni dubbio. Quel dubbio che proromperà appena un paio di anni più tardi ne L’ombra del dubbio, risolto in quel caso in modo più canonico – ma non per questo meno sorprendente – perché riguarderà la sfera della fascinazione, e non del desiderio. Hitchcock filma uno dei più grandi film sull’ossessione amorosa volgendolo interamente a una riflessione sulla lettura dell’altro, e sulla costruzione dell’immaginario sull’altro da noi.

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Il trailer de Il sospetto.

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