Marie Antoinette

Marie Antoinette

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In Marie Antoinette la regina per antonomasia, una delle donne più celebri della storia, non solo viene aggiornata in “stile pop” (espressione assai riduttiva visto il grande lavoro registico messo in campo da Sofia Coppola) per rendercela più vicina e riconoscibile, ma diventa soprattutto il centro di un racconto sull’educazione alle regole, ai desideri, alle abitudini formali e alle pulsioni sostanziali di una giovane che deve imparare a stare al mondo. Ma quel mondo sta morendo. Con una splendida Kirsten Dunst.

Paradisi artificiali

Austria, 1768: Maria Antonietta viene promessa in sposa, a poco più di 13 anni, al Delfino di Francia per suggellare un patto politico tra i due Paesi. Qualche tempo dopo la ragazzina lascia la madre, la Sovrana d’Austria Maria Teresa, e tutti gli affetti famigliari per raggiungere la corte di Versailles, luogo di formalità e rigide regole che la giovane ignora e deve apprendere. Il matrimonio con il futuro Re viene celebrato, ma le nozze non vengono carnalmente consumate per lungo tempo, mentre Maria Antonietta impara a muoversi tra i vizi, i divertimenti e le follie di una corte sull’orlo del disfacimento… [sinossi]

Tratto liberamente dalla biografia Maria Antonietta – La solitudine di una regina di Antonia Fraser, Marie Antoinette è uno dei rari film generazionali degli anni zero. La regina per antonomasia, una delle donne più celebri della storia, non solo viene aggiornata in “stile pop” (espressione assai riduttiva visto il grande lavoro registico messo in campo da Sofia Coppola) per rendercela più vicina e riconoscibile, ma diventa soprattutto il centro di un racconto sull’educazione alle regole, ai desideri, alle abitudini formali e alle pulsioni sostanziali di una giovane che deve imparare a stare al mondo. Solo che impara a vivere in un mondo che sta finendo. Marie Antoinette diventa così la vicenda di una ragazzina che diventa donna in un contesto in via di dissoluzione e che, mentre con non pochi crucci apprende le regole del gioco, non si accorge che la storia – quella lasciata totalmente in fuori campo – pullula di cambiamenti e condurrà a ribaltamenti, un po’ come è successo alla generazione dei nati negli anni Settanta fino ai primi Ottanta (Sofia Coppola è nata nel 1971), che si sono preparati a vivere in un mondo che sarebbe scomparso da lì a poco, attratti da vellutate promesse che già nella loro giovinezza avrebbero visto sparire per sempre. Marie Antoinette, ancora una volta, è anche per la regista de Il giardino delle vergini suicide una storia di adolescenza che deve fare i conti con precetti e allo stesso tempo trovare strade accettabili per affermare i propri desideri. Solo che, dopo aver conosciuto l’amore carnale e un profondo affetto matrimoniale per il marito Luigi XVI (Jason Schwartzman), la nostra verrà molto semplicemente portata a morire. La difficile strada che conduce alla maturità finisce all’improvviso e va in cenere addirittura per una regina – diventata con ciò anche un simbolo tragico – figuriamoci per noi comuni mortali. Se approcciassimo con vocazione storico-politica il film di Sofia Coppola resteremmo un po’ delusi: qui non si vuole trarre un giudizio sull’inanità, la pochezza o l’impreparazione dei regnanti mozzati dalla Rivoluzione Francese. Al contrario, semmai, l’universalità di queste figure fragili è proprio quella di essere gli ultimi, inadeguati a leggere i tempi, addestrati a vivere in un mondo che pare inattaccabile ed eterno ma del tutto incapaci a cambiare e ciechi di fronte ai segnali. La presenza fondamentale nel film di Luigi XV (interpretato da Rip Torn), che muore nel 1774 per lasciare alla giovane coppia le redini dell’assai instabile corona, suggerisce però l’abisso tra una generazione che ha posseduto realmente la struttura delle cose, impostandole e gestendole, e quella che se le ritrova in mano avendone colto soltanto la superficie comportamentale, essendo avvezza ai protocolli ma non alla sostanza, tramortita da cappellini e battute di caccia (al consumo verrebbe voglia di dire…), destinata perciò all’irrilevanza. Quanto le passioni della giovane regina per gli abiti e i dolci, è dettaglio prezioso quanto ridicolo che l’hobby di Luigi XVI sia quello di collezionare e studiare chiavi. La cerimonia di investitura dei nuovi regnanti-bambini, nella maestosità della corte e dei nobili fuochi d’artificio, risuona con la prima sublime traccia di Disintegration dei Cure (ovvero Plainsong). Disintegrazione. Perché in realtà la morte di Luigi XV è già la fine. E gli eredi, cui non è stato trasmesso niente se non la banale pratica dell’esistente, difficilmente potranno attraversare le tempeste che stanno arrivano muniti solo del loro piccolo individualismo, delle proprie piccole conquiste personali.

La sinuosa forza del film non sta nell’analisi politica della monarchia né della psicologia della protagonista, una Maria Antonietta interpretata in maniera stupefacente da Kirsten Dunst, uno dei più cristallini talenti attoriali degli ultimi decenni che anche qui mostra di essere una fuori classe assoluta. Girato (anche) a Versailles, impreziosito dal genio di Milena Canonero che per questo film vinse il suo terzo Oscar per i costumi, il film di Sofia Coppola esordisce mettendo le carte in tavola: i titoli rosa shocking, scanditi da Natural’s Not in It dei Gang of Four, sono interrotti solo da una breve inquadratura in campo medio in cui la Dunst, distesa col capo reclinato su un divanetto mentre una serva si prende cura delle sue regali gambe, alza la testa e guarda sbarazzina in camera. “This heaven gives me migraine”, “questo paradiso mi dà l’emicrania” cantano i Gang of Four in un incipit super pop, super cool, che fa quasi letteralmente l’occhiolino allo spettatore e che ci mette subito dentro a un melange in cui si fonderanno Rameau, Scarlatti e Vivaldi con pezzi new wave e post punk o con bellissime, dolenti note per pianoforte di Aphex Twin o Dustin O’Halloran. La sceneggiatura è incentrata sul passaggio dall’infanzia all’età adulta. E la prima sequenza è il rito di passaggio che segna l’ingresso nel mondo di una ragazzina di 14 anni: Maria Antonietta viene portata al confine tra Austria e Francia per abbandonare il proprio paese d’origine e andare a corte per sposarsi. La giovane entra in una “tenda”, viene denudata delle sue vesti infantili e imbellettata per uscire Delfina: spogliata di tutto, persino separata dal suo amato cagnolino, la ragazza vive la prima perdita della verginità, penetrando lei stessa spazi comunicanti ma trasformativi. La prima parte del film guarda stilisticamente a modelli inevitabili (da Barry Lyndon di Kubrick ad Amadeus di Forman) e le prime sequenze sono classiche e composte. L’arrivo a corte è morbido come i carrelli che lo raccontano e al tempo stesso spaesante come lo sguardo di Maria Antonietta ai lampadari lucenti o ai bambini vestiti come cicisbei. La conoscenza con il futuro marito e l’apprendimento dei doveri di corte (“Tutto questo è ridicolo”, dice la futura regina; “Tutto questo, madame, è Versailles” le risponde Judy Davis che interpreta la contessa che la deve istruire sulle regole del luogo) vengono scanditi in alcune sequenze in cui le situazioni si susseguono identiche ma sempre più ritmate: la vestizione, la colazione, la messa, tutti momenti di uno spettacolo in cui il corpo sociale è sempre presente (e in cui la Dunst è eccezionale col suo volto iper-espressivo, buffo, sarcastico, basito, annoiato) e infine il letto nuziale in cui nulla accade. Il grande conflitto della prima parte di Marie Antoinette verte sulla frustrazione politico/sessuale: nonostante l’indubbia beltà della giovane, il marito non è interessato a consumare il matrimonio. Mentre la protagonista impara a comportarsi in società, non riesce a portare a termine il più importante degli obiettivi: perdere la verginità, sventando ogni pericolo di vedersi annullate le nozze, ma pure togliendosi qualche curiosità erotica adolescenziale. Il problema non è da poco e la futura regina riceve pressioni dalle lettere materne che chiedono lumi sulle difficoltà coniugali: la Dunst viene avvicinata da carrelli o isolata in campo lungo da zoom, avvilita nella propria solitudine, mentre in un momento di cupa disperazione la regia aderisce completamente ai suoi tormenti accasciandosi con lei a terra, andandola a scrutare in quello che è uno dei passaggi più intimi del film.

Per compensare la mancanza di attività con il marito, la Delfina decide di scatenarsi altrimenti. Sotto le note di I Want Candy dei Bow Wow Wow c’è forse la scena più famosa del film, ovvero quella fatta solo di singole inquadrature montate freneticamente, una carrellata formalmente gustosissima di torte, scarpe, tessuti per abiti, tavoli da gioco, coppe di champagne, eccessi di gola ed eccessi di vizio della protagonista spendacciona e delle sue damigelle di corte. Tolti i titoli di testa, dalle prime sequenze più classiche il film prende via via un ritmo vitale diverso, nella ripetizione ironica dei momenti della noiosa giornata fino a far prevalere un montaggio serrato, tagli interni, colori sparati, in una direzione sempre meno calligrafica e sempre più contemporanea. Meno pittura, più video: non è infatti un caso che nella parte centrale del film la new wave prevalga marcatamente sulla musica barocca. La scena madre della vita giovanile (prima della riuscita matrimoniale) è quella della grande festa in maschera a Parigi, in cui Maria Antonietta può fingere di essere chi vuole e che esplode letteralmente sulle note di Hong Kong Garden di Siouxsie & The Banshees. Siamo di fronte a un gruppo di giovani in discoteca, come ne abbiamo visti tanti, come siamo stati probabilmente noi, che si diverte, flirta, fa battute (“Guardate che spadone” dice la dama di compagnia indicando il bel Fersen) e torna a casa un po’ sfatto all’alba. Che sia una carrozza anziché un’automobile poco importa. Qualunque adolescente degli anni Ottanta o Novanta si può riconoscere in questo momento e qualcuno avrà ballato quella stessa canzone in discoteca: siamo stati tutti Maria Antonietta e non lo sapevamo. Marie Antoinette è un lento insinuarsi nel vissuto dello spettatore, nel contemporaneo, in un’idea di giovinezza tutto sommato recente e il film schiude generosamente i suoi segreti grazie a una regia che sa perfettamente dove andare. Quando verranno incoronati, Maria Antonietta e il marito sono due ragazzini che prendono un potere assai più vasto del loro vissuto: svaccata su una poltroncina con l’alcol ancora in corpo, questa ragazzina diventa Regina senza aver imparato regole nuove per il tempo che cambia, ma solo avendo cercato soddisfazione in quelle esistenti, senza essersi istruita alla complessità, ma solo avendo approfittato della sua possibilità di avere un elefante in giardino o piantare querce spendendo un patrimonio.

Dopo un’ora e venti minuti dall’inizio i due regnanti riescono a fare l’amore. E da qui in realtà parte l’ultima parte del film, a sua volta divisa in due momenti: il primo è giocato tutto sul bianco, il secondo tutto sul nero. Dopo essere diventata madre, dunque aver espletato la funzione fondamentale, la Regina si rifugia in una campagna luminosissima, vestita sempre di bianco, raccogliendo con mani candide fragole rosse, facendo languidi giri in barca sul lago, in una sorta di maturità bucolica in cui irrompe la vera passione fisica con il conte Fersen (Jamie Dornan) che diventerà suo amante e, in sostanza, il grande amore passionale il cui ricordo continuerà a tormentare le giornate al ritorno a Versailles. La rivoluzione a questo punto è alle porte mentre la nostra eroina non si è accorta proprio di nulla, occupata a trovare la quadra di se stessa, del matrimonio, dei doveri e dell’amore romantico. Dalla morte di sua madre Maria Teresa, interpretata non proprio a caso da Marianne Faithfull, tutto diventa nero. La generazione dei veri regnanti si è esaurita: ora restano solo gli incerti figli. I vestiti sono neri o blu, il cielo è plumbeo, la luce degli interni sempre più cupa, declinando la giovinezza in una precoce fine. Il racconto del tracollo della monarchia è rapido, tratteggiato in poche scene proprio perché nessuno in fondo se ne era accorto, troppo preso da se stesso per concepire quel fuori campo, che non a caso non abbiamo visto, ma che era molto più importante di queste vicende umane e per il destino proprio di queste stesse vicende umane. Ormai a teatro per la Regina ci sono solo boati di disapprovazione e non più applausi (in una scena che cita chiaramente il finale de Le relazioni pericolose di Stephen Frears), e se una carrozza aveva portato una ragazzina al confine con la Francia, una carrozza la porta per sempre via da Versailles. Ma questa volta non c’è più una bambinetta col suo cagnolino bensì ci sono una moglie e un marito, legati al fine da una profonda e tenerissima complicità adulta. La potenza dell’ultima immagine di Marie Antoinette, con la camera della Regina a Versailles distrutta dai rivoltosi, è associata all’attacco ipnotico di All Cats Are Grey dei Cure chiudendo perfettamente il cerchio, che si era aperto con i baldanzosi e poppettari titoli di testa, su titoli di coda che marcano l’inevitabile cupio dissolvi.

Sofia Coppola, dopo Il giardino delle vergini suicide e Lost in translation con Marie Antoinette si confermò nel 2006 regista di livello, estremamente capace di declinare il proprio tratto stilistico nelle proprie storie. La Coppola ha raccontato quasi sempre vicende di adolescenti o giovani donne, ma in questo caso la donna in questione è uno dei personaggi più famosi di sempre, uno dei più controversi, detestati, affascinanti, deplorevoli, studiati e anche dei più fatalmente tristi. La Coppola in Marie Antoinette non è interessata all’analisi politica, ma neppure alla “leggenda” postuma della regnante e neppure alla psicologia profonda del suo essere stata umana. Maria Antonietta è una figura dell’immaginario per la generazione di transizione, per i bambini/adulti schiacciati dalla storia, per i piccoli delfini d’occidente. E questa intuizione rende Marie Antoinette un film imprescindibile d’inizio secolo.

Info
Il trailer di Marie Antoinette.

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