Figli del sole

Figli del sole

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Con Figli del sole Majid Majidi corre per la conquista del Leone d’Oro mettendo in scena il racconto di quattro ragazzini di strada che sono “costretti” a iscriversi a scuola per poter trovare un tesoro nascosto nella fogna sottostante. L’idea brillante purtroppo non è sostenuta né dalla pastrocchiata sceneggiatura né da una regia incerta, e il film nel complesso sembra più adatto al concorso di Giffoni che a quello della Mostra.

Ali e i suoi fratelli

ll film narra la storia del dodicenne Ali e dei suoi tre amici: insieme cercano di sopravvivere e sostenere le loro famiglie, tra lavoretti in un garage e piccoli crimini per trovare in fretta del denaro. In un colpo di scena che ha del miracoloso, ad Ali viene affidato il compito di ritrovare un tesoro nascosto sottoterra. Ali chiede aiuto alla sua banda, ma per poter avere accesso al tunnel è necessario iscriversi alla Scuola del Sole: un’associazione di beneficenza che cerca di educare bambini che vivono in strada o sono costretti a lavorare, la cui sede è vicina al luogo in cui si trova il tesoro. [sinossi]

Non è certo un mistero che Alberto Barbera abbia una personale predilezione, uscendo dagli schemi delle cinematografie “consolidate” (oramai ridotto al misero triangolo Stati Uniti/Italia/Francia) per le produzioni di stanza a Teheran. Dopotutto durante la sua prima reggenza veneziana, nel triennio 1999-2001, si visse l’ultima fase di fulgore della cosiddetta “seconda onda” del cinema iraniano: nel 1999 Abbas Kiarostami vince il Leone d’Argento con Il vento ci porterà via, l’anno dopo va meglio a Jafar Panahi che con Il cerchio conquista il Leone d’Oro, e nel 2001 è di nuovo l’Argento a spettare a Babak Payami e al suo Il voto è segreto. Sono anni di grandi turbolenze con l’apparato di Stato che in Iran si occupa del cinema, turbolenze che non verranno (quasi) mai meno nel corso degli anni, come ben sa chi ricorda la proiezione veneziana – con ancora il timecode visibile perché la censura in patria non aveva dato il beneplacito alla diffusione – di un altro film di Payami, Silenzio tra due pensieri nel 2003, seconda e ultima edizione della Mostra sotto la direzione di Mauritz de Hadeln, la cui visione del cinema fu sbeffeggiata dalla critica italiana con la solita mediocrità di vedute. Alla luce di quanto scritto non sorprende di certo la selezione di un film come Figli del sole (Khorshid è il titolo originale in farsi) in concorso nell’edizione numero settantasette della kermesse lagunare. Semmai a sorprendere di più, e a marcare una netta distanza dall’operato di venti anni fa, è la scelta della tipologia di cinema iraniano da proporre sul proscenio più importante della Mostra: senza che si debba necessariamente attribuire un connotato negativo a quanto si sta per scrivere, è però indubbio che Majid Majidi sia un esponente di spicco del cinema più istituzionale. Lo era già oltre venti anni fa, quando pure con titoli come I ragazzi del paradiso iniziò a farsi notare a livello internazionale: non è certo un caso che il film all’epoca sia stato scelto dal Ministero della Cultura per concorrere alla vittoria dell’Oscar al Miglior Film Straniero, ottenendo una storica nomination che non si tramuterà in statuetta solo per la presenza nella stessa categoria de La vita è bella di Roberto Benigni. Mentre in Orizzonti, la seconda sezione competitiva della Mostra – che non possiede però più i connotati di ricerca che la contraddistinguevano negli anni Zero –, ancora c’è spazio per un cinema iraniano indipendente dalle logiche statali (è già passato The Wasteland di Ahmad Bahrami, si vedrà a breve Careless Crime di Shahram Mokri), in Concorso si è scelto di assecondare uno sguardo più consono, edulcorato, pulito.

Figli del sole dichiara la sua identità di film “utile” o “necessario” fin dalla scritta bianca su sfondo nero che anticipa l’incipit: si scopre infatti che il film è dedicato ai 152 milioni di bambini costretti a lavorare nel mondo. La vocazione di Majidi è dunque quella di ergersi come monito al mondo intero: non fate lavorare i bimbi, che hanno diritto alla studio! Tutto giusto, tutto ineccepibile, ma anche dalla risonanza ben poco sincera una volta che il film si sviluppa. Aggrappato alle derive neorealiste solo per quel che concerne l’epidermide – i ragazzi scelti per interpretare i protagonisti pare siano stati “tolti dalla strada” per poter prendere parte alle riprese: sarebbe interessante scoprire se poi alla strada siano stati o meno costretti a tornare –, il regista insegue al contrario traiettorie di puro intrattenimento. Almeno sulla carta Figli del sole è infatti un film d’avventura, con Ali e i suoi tre scherani che vengono assoldati da un boss locale per recuperare un tesoro che giace, così pare, nelle fogne cittadine. Il problema è che l’unico modo per accedere alle suddette fogne sia scavare nello scantinato di una scuola, e quindi i quattro ragazzi abituati a passare le proprie giornate tra piccoli furti e vendita illegale di oggetti sulla metropolitana debbano necessariamente iscriversi a scuola, e frequentare l’istituto. Un escamotage intelligente, e per niente banale, che però Majidi si dimentica di sviluppare, svilendolo in continuazione. Le lezioni sono risibili, e i ragazzi riescono a evadere dall’aula per poter scavare nel sotterraneo – facendo un rumore d’inferno cui nessuno presta attenzione, per di più – con qualsiasi scusa. La sciatteria a livello narrativo si espande minuto dopo minuto, sequenza dopo sequenza: tutto in Figli del sole si muove ben al di là della credibilità, ma allo stesso tempo Majidi sembra volersi ammantare della ricostruzione del vero, facendo cozzare tra loro senza la minima finezza strutture narrative ed estetiche in netta contrapposizione.

Il meccanismo è scoperto, prevedibile e di una semplificazione barbarica. Perché il sovrintendente scolastico dovrebbe farsi spiegare dal giovane Ali il modo migliore per distribuire capocciate a destra e a manca spaccando setti nasali? Ovvio, perché prima o poi nel corso della narrazione quel gesto sarà costretto a metterlo in pratica. Tutto il film si sviluppa attorno a questa dinamica, in un profluvio di causa/effetto indigeribile e del tutto privo di fantasia. Se si voleva giocare a fare i Goonies con una ricostruzione del “reale” perché da un lato si rinuncia completamente alla verità cinematografica per accomodarsi dalle parti della retorica più retriva (se solo i bambini avessero la possibilità di studiare sarebbero tutti geni della matematica), e dall’altro non si spinge mai i pedali sul tema dell’avventura? Si resta in un limbo indistinto, dominato da un’estetica che non sa sfruttare i larghi mezzi a distribuzione – tra carrelli, dolly, movimenti di macchina a mano e scenografie da costruire e distruggere ci si trova nel bel mezzo di una produzione industriale di non poco conto – anche per via delle scelte strettamente registiche di Majidi. Certo, Figli del sole è un film innocuo, che porta avanti un discorso netto e chiaro e adatto a far commuovere il pubblico senza porgli mai reali interrogativi. Se il suo obiettivo è questo il bersaglio può anche dirsi centrato, e magari si uscirà dalla sala scrollando dolorosamente il capo nel pensare ai poveri bimbi che sono costretti a lavorare. Ma è questo che si deve chiedere al cinema? Solo questo? E soprattutto è solo questo il compito di una Mostra d’Arte Cinematografica, che dovrebbe saper organizzare uno sguardo attorno a un pensiero, un’estetica attorno a una riflessione filosofica o politica? Figli del sole non avrebbe sfigurato all’interno di un concorso del Giffoni Film Festival, ma è del tutto fuori contesto al Lido, e la sua spudorata mancanza di profondità andrebbe contrastata con forza. È pur vero che l’Italia ha un Ministero della Cultura che ritiene Giffoni la realtà festivaliera più degna di finanziamenti e di supporto. E allora, come direbbero i francesi, “tout se tient”.

Info
Sun Children sul sito della Biennale.

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