Lasciami andare

Lasciami andare

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Proposto come chiusura di Venezia 77 e ora in sala, Lasciami andare di Stefano Mordini è espressione paradigmatica di un cinema italiano che si solletica all’idea del film di genere, qui persino di fantasmi, ma che poi non ha il coraggio di andare fino in fondo, perdendosi nei difetti consueti, a partire dall’immarcescibile familismo.

Questi non fantasmi

Marco e Anita aspettano un figlio. Finalmente un raggio di luce nella vita di Marco, messa alla prova dal dolore per la scomparsa di Leo, il suo primogenito avuto con la prima moglie Clara. Improvvisamente però, nella vita di Marco e della sua ex moglie, irrompe Perla, la nuova proprietaria della casa dove la coppia abitava fino al tragico incidente. La misteriosa donna sostiene di sentire costantemente una strana presenza e la voce di un bambino che tormenta sia lei che suo figlio. [sinossi]

Stefano Mordini è senz’altro un regista interessante che, a partire da Pericle il nero, ha cominciato a percorrere la strada di un cinema di genere quasi-autoriale. Il problema però sta tutto in quel quasi, su cui si arenava proprio il film con protagonista Riccardo Scamarcio, mentre la questione dell’autorialità veniva abbastanza abilmente scavallata ne Il testimone invisibile, sempre con Scamarcio, dove – grazie a un incastro narrativo fatto di progressive rivelazioni – Mordini riusciva a creare un’atmosfera thriller degna di questo nome, concentrandosi per l’appunto sul racconto di una storia, senza appesantire il tutto con ambizioni di altra natura. Ora, con Lasciami andare, ci sembra però che di nuovo il regista si sia lasciato sprofondare in un’ambiguità di approccio, dove troppi elementi si mischiano e si aggrovigliano senza che riescano a emergere soluzioni credibili.

Da un lato, in Lasciami andare c’è l’input di un film di fantasmi, o più propriamente di un bambino fantasma, quasi come ne Il presagio o come in A Venezia… un dicembre rosso shocking; dall’altro c’è un cast sin troppo invadente, fatto di nomi di richiamo del nostro cinema, da Stefano Accorsi a Maya Sansa passando per Serena Rossi e Valeria Golino (nomi cui è sembrato necessario – in nome di velleitarie regole di mercato – concedere il numero necessario di pose, anche se non richiesto dai rispettivi personaggi); dall’altro ancora c’è la solita tendenza al familismo e al buonismo, con famiglie che si scompongono e si ricompongono, finendo inevitabilmente per complicare ogni possibile sviluppo narrativo e appesantendo il racconto di scene madri e di futili litigi. Così Mordini perde di vista quello che avrebbe dovuto essere l’unico suo vero motivo di interesse in un thriller con delle ambizioni ben centrate: la suspense. Invece ben presto si capisce che la costruzione di una storia credibile non è così importante in Lasciami andare e che a Mordini stesso non importa poi troppo sviscerare giochi e vere/false aspettative sull’esistenza o meno di questo fantasma. E così, dopo aver creato un po’ di attesa sul senso di colpa del protagonista, che è convinto di aver provocato in qualche modo la morte del bambino che poi tornerebbe sotto forma di spettro, Mordini risolve il flashback rivelatorio in un modo grottescamente grossolano. Un flashback, tra l’altro, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto fugare ogni dubbio sull’andamento del tragico evento e che invece appare così confuso da far pensare che effettivamente qualche colpa il protagonista/Accorsi debba averla avuta.

In più, rispetto al romanzo cui è ispirato (Sei tornato di Christopher Coake), in Lasciami andare c’è Venezia, proprio come in A Venezia… un dicembre rosso shocking. E quella che vediamo è una Venezia sempre grigia, sempre sommersa dall’acqua alta. Ed è una location che poteva essere interessante, tanto più che il personaggio di Accorsi è un ingegnere e dunque è alle prese con problemi costruttivi e idraulici che la città lagunare sottopone costantemente ai suoi abitanti. Ma quella che avrebbe potuto essere una potenziale chiave di lettura simbolica del film – il protagonista non riesce a “ricostruire” la sua vita così come l’acqua della laguna rende proibitivo ogni tentativo di “ricostruire” e di tenere a galla gli edifici della città – resta lettera morta, ben presto abbandonata per più facili sotterfugi narrativi. Sotterfugi che, purtroppo, si concentrano nel personaggio incarnato da Valeria Golino – forse per la prima volta in difficoltà nella sua carriera di attrice – che si trova a dover affrontare una serie di ribaltoni comportamentali di ben difficile gestione.

E ogni volta, e ancora una volta, siamo qui a domandarci cosa non abbia funzionato, perché non si riescano a costruire dei film “medi” credibili, quale sia insomma il problema del nostro cinema. E ogni volta i problemi paiono sempre troppi e sempre incontrollabili, a partire ovviamente da sceneggiature non abbastanza oliate e studiate e a partire dalla scarsa volontà – o dalla scarsa predisposizione – di credere fino in fondo nelle storie che si decide di raccontare. E ogni volta torna l’acqua alta e il nostro sistema cinematografico affonda ancora un altro po’.

Info
La scheda di Lasciami andare sul sito della Biennale.

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