Il buco in testa

Il buco in testa

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Con Il buco in testa torna il cinema prezioso – e sempre sottostimato – di Antonio Capuano, qui intento a riflettere sul dolore della memoria, anche politica, e sulla necessità del confronto con se stessi, prima ancora che con gli altri. Splendida Teresa Saponangelo, ennesimo ritratto umanissimo e psicologicamente stratificato della carriera del regista napoletano. Fuori concorso al Torino Film Festival.

La donna con la pistola

Maria S. vive vicino al mare, in provincia di Napoli. Ha un lavoro precario, nessun amore. Una madre praticamente muta. Quarant’anni prima, un militante dell’estrema sinistra ha ammazzato suo padre, vicebrigadiere di polizia poco più che ventenne, nel corso di una manifestazione politica. Maria è nata due mesi dopo. Un giorno apprende che l’omicida del padre ha un nome, un volto, un lavoro. Ha scontato la sua pena e vive a Milano. «Adesso so chi odiare», pensa Maria. Si tinge i capelli e prende un treno veloce per andare a incontrarlo. Ha con sé una pistola. [sinossi]

Il buco in testa è quello che può provocare un proiettile esploso da un pistola, ma è anche quello di uno Stato che ha deliberatamente occultato la memoria del conflitto, e con essa anche il ricordo degli ultimi, delle vittime “a prescindere”, di chi vive ai margini della norma, della prassi, dell’agio borghese. Il buco in testa, infine, è anche la voragine allargatasi anno dopo anno nel mondo del cinema, l’orrido oscuro in cui sono stati fatti scomparire nomi tra i più interessanti della produzione nazionale. Tra questi, non è forse neanche il caso di sottolinearlo, ovviamente c’è anche Antonio Capuano, che nonostante sia ottuagenario continua a essere bellamente ignorato tanto dalla critica tanto dal pubblico – e c’è ben poca speranza oramai di invertire la triste tendenza. Capuano, colui che esordì, dopo una lunga gavetta in qualità di scenografo, a cinquant’anni suonati con Vito e gli altri, sbalordendo i più, e poi confermò il proprio talento fuori dal comune (non solo per mera qualità estetica, ma per la libertà concettuale del suo approccio al cinema) con Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, Polvere di Napoli e Luna rossa, straordinaria reinterpretazione dell’Orestea in chiave camorrista che riuscì ad approdare nel concorso principale della Mostra di Venezia. Quello che avrebbe dovuto rappresentare il trampolino di lancio – desta ancora stupore l’assenza di riconoscimenti in quell’edizione della Mostra, dove tra gli italiani gli venne preferito il mediocre Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni, che conquistò entrambe le Coppe Volpi –, insieme al successivo La guerra di Mario, presentato a Locarno, si risolse in un nulla di fatto. Nei quindici anni che dividono la sortita in Ticino da Il buco in testa Capuano ha diretto altri quattro lungometraggi, Giallo?, L’amore buio, Bagnoli Jungle e Achille Tarallo, tutti confinati in una nicchia strettissima, dove non passa luce e non si smuove alcun granello di polvere critica. Il mondo del cinema italiano, per quanto possa apparire paradossale, snobba Capuano, lo ignora, gli volta continuamente le spalle. Con ogni probabilità lo stato delle cose non muterà grazie a Il buco in testa, che raggiunge il fuori concorso della prima Torino sotto la direzione di Stefano Francia Di Celle ma avrebbe meritato una collocazione più centrale – non certo sotto la Mole, visto che il concorso è riservato al cinema nuovo, ma magari al Lido, dove sulla medesima tematica, vale a dire la memoria degli Anni di Piombo, si sono visti film decisamente meno ispirati.

Sì, perché Capuano nel suo decimo lungometraggio affronta di petto uno dei momenti storici più difficili da trattare per la produzione italiana: la lotta armata, il brigatismo, quel popolo del ’77 che decise di muoversi fuori dagli schemi legali e imbracciarono le armi. Ma Capuano alza ulteriormente il tiro, dichiarando fin dai titoli di testa di essersi liberamente ispirato alla storia di Antonia Custra e di suoi padre Antonio, poliziotto partenopeo che rimase ucciso durante una manifestazione milanese nella primavera del 1977. L’assassino di Custra era un esponente di Prima Linea, Mario Ferrandi, immortalato in una delle più celebri fotografie dell’epoca. Antonia e Mario ebbero modo di incontrarsi in un caffè di Milano nel 2007, trent’anni dopo i tragici fatti, poi la donna morì quarantenne nel 2017, uccisa da un tumore. Già nella scelta di Capuano di ambientare il suo film nel 2020 (da un televisore acceso arriva la notizia della conferenza berlinese sulla Libia) si può percepire il carattere sentimentale tanto de Il buco in testa quanto del suo cinema nel complesso: per Capuano Antonia Custra (che nella finzione si chiama Maria Serra) non è mai morta, è ancora viva e determinata a lottare per trovare il proprio posto nel mondo. Perché in questo stratificato racconto di fallimenti e di vittime non c’è spazio per la commiserazione, ma per la rivendicazione di uno spazio, che sia strettamente personale o collettivo, in cui si abbia la possibilità di resistere a una società sozza, profondamente sbagliata. Capuano rispolvera categorie umane che il cinema italiano ha volontariamente eliso dal proscenio: si parla di proletariato nel senso più politico del termine, di brigatismo, di una generazione che ha tentato di rivoluzionario il Paese, e lo ha fatto nei modi più disparati, arrivando anche all’errore della lotta armata, ma che per questo ha pagato un dazio gigantesco, confinata in un oblio ottundente e quasi impenetrabile.

Ricorrendo a una narrazione quasi completamente in flashback – il film inizia con l’arrivo del treno alla stazione di Milano, trasferta nordica per Maria che da Torre del Greco ha deciso di andare a conoscere finalmente l’assassino di suo padre, l’uomo che con un colpo di pistola ha segnato in profondità la sua vita e quella della madre, che dalla morte del marito ha smesso di parlare, rinunciando alla dialettica, al rapporto sonoro e fonico con l’altro – Capuano traccia in realtà una spietata disamina dell’Italia, tanto quella di quarant’anni fa quanto e ancor più quella odierna. Maria è una precaria, non è mai stata in grado di affrontare in modo compiuto la morte del padre, è umorale, instabile, esattamente come il territorio in cui vive, la provincia napoletana dominata dalla camorra, dov’è quasi impossibile – se si è retti e politicamente consapevoli – non sfociare nella violenza per respingere l’egemonia culturale di una malavita che soffoca le vite, e distrugge qualsiasi possibilità sociale. Il parallelismo tra la camorra campana e lo Stato di fine anni Settanta è ardito, perfino avventato, ma il laicismo teorico e pratico di Capuano permette a Il buco in testa di non avvicinarsi mai alle sabbie mobili del pamphlet. Il suo è un racconto umano, e il cortocircuito proposto da Capuano diventa terreno fertile per il rapporto con la memoria personale e collettiva, con la capacità di soffrire con l’altro, per l’altro, e di accettarsi senza mai scendere a compromessi eccessivi. Coerentemente Capuano sposa a questa interpretazione politica un cinema altrettanto in grado di muoversi tra i paradossi, e gestisce la messa in scena con una libertà espressiva decisamente fuori dal comune. Il buco in testa cambia registro a ogni pie’ sospinto, passando dal racconto in prima persona in camera, neanche Maria fosse protagonista di un documentario sulla sua vita, all’oggettività dello sguardo esterno, dal dialogo vis à vis a un racconto sempre volutamente slabbrato del napoletano. Lo sguardo di Capuano è nervoso e frammentario, segue gli incastri temporali perdendovisi all’interno. Una dispersione che è necessaria, perché permette allo spettatore di vivere alla stessa medesima altezza di Maria, e allo stesso tempo di comprendere l’angoscia di Guido – il nome fittizio scelto per il personaggio di Mario Ferrandi.

Il buco in testa è composto di strappi continui, che negano la prassi del montaggio contribuendo al succitato spaesamento. La bruschezza è sostantivo di solito guardato con sospetto da chi si occupa di cinema, ma Capuano ne rivendica l’evidenza e l’esigenza di utilizzarla per poter raccontare un mondo oscuro, sbagliato, iniquo. Lo Stato ha voltato le spalle a Maria, vittima non illustre del terrorismo, perché anche in questo campo esiste una questione di classe. Ed è una questione di classe anche voltare le spalle alla dottrina dello sguardo dominante. Capuano compie un esercizio di stile che è esercizio di libertà creativa, rompendo il patto borghese di un cinema giusto e ribadendo il suo anarchismo concettuale, strutturale, che fa politica dell’immagine e attraverso l’immagine. Il suo cinema è imperfetto perché la ricerca della supposta perfezione è appannaggio della classe dominante, e dell’idea preconcetta e precostituita di cinema. Allo stesso modo il regista rimarca gli atti di resistenza della sua terra, citando Odissee di cyop&kaf, e Figli di un Bronx minore di Peppe Lanzetta. La dedica a Gianni Minervini, morto novantunenne lo scorso febbraio, si muove nella medesima direzione: non è solo il ricordo di un uomo cui Capuano deve molto (produsse Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, Polvere di Napoli e L’amore buio), ma anche la rappresentazione plastica di un modo politico di intendere il cinema, e la cultura in generale. Il portato storico degli Anni di Piombo ha lasciato dietro di sé solo vittime, perché lo Stato ha semplicemente abbandonato gli ultimi, fingendo che non esistessero (più). Se c’è qualcosa in cui avere ancora fiducia però è nella capacità degli esseri umani, nudi gli uni di fronte agli altri e sinceri, di ritrovarsi, riscoprirsi, e comprendere le proprie e altrui debolezze. E una stretta di mano, per quanto frettolosa e forse tardiva, vale più di mille speculazioni storiche. Poche verità sono preziose, nel cinema italiano odierno, dei film di Antonio Capuano, ed è grave – e sintomatico dell’oggi – che siano così in pochi a rendersene conto.

Info
Il buco in testa sul sito del TFF 2020.

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