L’uomo della pioggia

L’uomo della pioggia

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Non fu gentile ventiquattro anni fa la stampa italiana con L’uomo della pioggia, considerata quasi all’unanimità un’opera minore all’interno della vasta filmografia di Francis Ford Coppola. Si perse dunque l’occasione per comprendere la profondità del discorso coppoliano, che nel pieno del decennio post-moderno reclamava il diritto a una classicità che non si appiattisse sulle regole del genere d’appartenenza (nel caso specifico il film d’ambientazione processuale) ma ragionasse sulla tessitura dell’immagine, sull’uso della dissolvenza. È anche possibile vedere dietro il volto pulito e democratico del giovane avvocato Matt Damon lo sguardo anti-establishment dello stesso regista, impegnato in una lotta a sua volta destinata al fallimento.

Il sistema della bancarotta

Appena laureatosi in giurisprudenza, Rudy Baylor, si scontra subito con la realtà dei fatti. Il bisogno di lavorare lo porta a cercare clienti e casi legali ovunque sia possibile. Ma ciò significa frequentare tipi di dubbia fama per sbarcare il lunario mentre, allo stesso tempo, vuole combattere le ingiustizie di un sistema che favorisce i ricchi e i potenti. Rudy viene assunto da Bruiser Stone, avvocato legato alla criminalità. Qui conosce Deck Shifflet, che non ha mai superato l’esame di ammissione ma che conosce tutti i retroscena del sistema. Con lui entra in contatto con Dot Black, una donna il cui figlio sta morendo di leucemia e al quale l’assicurazione non vuole riconosce alcuna indennità per le cure. Rudy comincia a seguire il caso in prima persona… [sinossi]

Ad aprile Francis Ford Coppola, nato a Detroit nel 1939 ma cresciuto nella babelica New York, compirà ottantadue anni. Sempre nel 2021 rintoccheranno i dieci anni dall’ultima regia cinematografica, quel Twixt che riprendeva gli umori di Edgar Allan Poe per mescolarli alla tecnica stereoscopica – ma con un procedimento d’epoca, con tanto di indicazione su quando indossare gli occhialini e quando toglierli. Escludendo i vari ritorni ad Apocalypse Now, e di recente anche alla terza parte del Padrino, i film diretti da Coppola in questo primo ventennio del Terzo millennio sono appena tre, visto e considerato che a Twixt si aggiungono i soli Tetro – conosciuto in Italia con lo scialbo titolo Segreti di famiglia – e il superbo e spesso incompreso Youth Without Youth, vale a dire Un’altra giovinezza, straripante trasformazione in immagini del romanzo di Mircea Eliade. Un novero di titoli davvero esiguo se si considera che tra l’esordio del 1962 Tonight for Sure e il 1997 il regista statunitense portò a termine ben ventuno lungometraggi: l’ultimo film di questa ideale cavalcata fu The Rainmaker, tradotto in Italia come L’uomo della pioggia (che appariva, caso bizzarro, come sottotitolo nel Rain Man di Barry Levinson) e tratto da un romanzo di John Grisham. Non nuovo a lavorare su testi preesistenti, come testimonia appena un lustro prima l’illuminata rilettura di Bram Stoker con Dracula, Coppola si muove in direzione di quello che è forse il romanziere più saccheggiato dalla Hollywood del periodo. Nel 1993 Sydney Pollack aveva adattato Il socio, e nello stesso anno era stato distribuito Il rapporto Pelican di Alan J. Pakula; l’anno successivo era stata la volta de Il cliente di Joel Schumacher, destinato nel 1995 a divenire una serie televisiva; sempre Schumacher nel 1996 aveva diretto Il momento di uccidere, mentre James Foley si era dedicato alla trasposizione de L’ultimo appello. Apparentemente dunque Coppola arrivava tardi, si accodava a una tradizione giovane ma consolidata, per di più addentrandosi nei meandri del cinema a carattere processuale che sempre più spazio andava trovando nell’industria californiana: nel decennio immediatamente precedente a L’uomo della pioggia le major e le etichette indipendenti producono tra gli altri Suspect – Presunto colpevole di Peter Yates, Sotto accusa di Jonathan Kaplan, Un’arida stagione bianca di Euzhan Palcy, Music Box – Prova d’accusa di Costa-Gavras, Verdetto finale di Joseph Ruben, Presunto innocente di Alan J. Pakula, Il mistero Von Bulow di Barbet Schroeder, Conflitto di classe di Michael Apted, Codice d’onore di Rob Reiner, Per legittima accusa di Sidney Lumet, Philadelphia di Jonathan Demme, Sleepers di Barry Levinson, Schegge di paura di Gregory Hoblit, Larry Flynt – Oltre lo scandalo di Miloš Forman, il nuovo adattamento de La parola ai giurati diretto da William Friedkin.

In uno scenario così standardizzato, normato da regole interne difficili da flettere e pronto a confrontarsi con ogni tipologia di genere (si pensi al successo di una commedia come Mio cugino Vincenzo di Jonathan Lynn, nel quale un avvocato ancora privo di esperienza in aula si trova a dover difendere suo cugino e un di lui amico dall’accusa schiacciante di omicidio volontario nel bel mezzo dell’Alabama rurale), l’avventura di Coppola viene vista con superficialità, forse persino con disinteresse, come se l’autore si prestasse a una bassa manovalanza, operaio non specializzato alle prese con gli ingranaggi dell’industria. Una lettura che investirà di lì a qualche mese anche Robert Altman, che nel 1998 porterà sul grande schermo un altro romanzo di Grisham in Conflitto d’interessi, con recensioni altrettanto frettolose, liquidanti un oggetto “già visto”. È un film rivoluzionario, L’uomo della pioggia? Certo che no, e non c’è dubbio che chi associa Coppola solo a determinate esplosioni visionarie – l’incipit di Apocalypse Now, ovviamente, ma anche Un sogno lungo un giorno o Rusty il selvaggio – possa trovare neutro lo sguardo che si focalizza sulla storia del giovane avvocato Rudy Baylor, destinato a scoprire sulla propria pelle la falsità del mondo della “giustizia”. Eppure basta poco, in realtà, per rendersi conto di trovarsi a tu per tu con una creatura che finge la propria prassi per allargare la visuale a un discorso politico non tanto sulla società, le cui iniquità sono evidenti, ma sull’idea stessa di costruire immagini. Il film si apre con le parole del protagonista, che è anche l’io narrante, che ricorda come il padre abbia sempre detestato gli avvocati, ma anche come non fosse certo un essere umano irreprensibile, visto e considerato che picchiava tanto lui quanto sua moglie: dallo schermo nero si passa a inquadrare i luoghi dove la giustizia viene esercitata, per poi far entrare in campo il protagonista, all’interno di quegli stessi spazi. In dissolvenza incrociata però le immagini del palazzo di giustizia non permangono, non svaniscono: la materialità dello spazio incornicia e fa parte dell’immaterialità dell’ideale, dello spirito puro. Una simile scelta estetica, che tornerà più volte nel corso del film, basta a scardinare L’umo della pioggia da qualsiasi fondamento dell’industria. L’utilizzo delle dissolvenze incrociate, da sempre elemento riconoscibile della poetica espressiva coppoliana, non è mai vezzosa, non appartiene al campo del “gusto”, ma acquista un valore squisitamente teorico e di senso. In un film che sviscera l’impossibilità di cambiare il sistema dall’interno Coppola fa mescolare le immagini tra loro, le sovrappone senza timore, creando sposalizi impensabili per lo sguardo.

Dopotutto l’impressione è che Coppola “sfrutti” Grisham non per mostrare il mondo delle aule di tribunale, ma per ragionare sul senso dell’immagine e sul suo valore politico. Tutti i potenziali climax emotivi e spettacolari di cui è costellata la narrazione sono raccontati, ma solo a parole e fuori dalle immagini. Il dramma giudiziario resta l’epidermide del film, ma non ne rappresenta la sostanza: semmai a Coppola interessano gli esseri umani che quelle aule le andranno a riempire, con le loro strategie, a partire ovviamente da Rudy, per approdare poi – restando nel campo dei buoni: il film non ha timore a compiere scelte manichee – al Deck Shifflet cui dà corpo e voce Danny De Vito in una delle sue migliori interpretazioni. Ma anche i vari Jon Voight e Mickey Rourke sono la vera essenza del film, ben al di là di quello che avviene in aula e che non ne è al massimo che una mera conseguenza. Il sistema è malato, afferma Coppola, e spinge chi ne entra a far parte ad accettare su di sé proprio quella malattia, per la quale non esiste una cura. Si può solo abbandonare la partita, provando a dare un contributo alla società insegnando. È questo il destino di Rudy, ma è questo anche il destino di Coppola, a ben vedere. Anche lui è un grande sconfitto del cinema statunitense, nonostante sia universalmente riconosciuto un maestro della Settima Arte. Hollywood, quell’industria di immagini sempre identiche a sé, l’ha schiacciato, l’ha ridotto in un angolo, impedendogli progressivamente di portare avanti i suoi progetti. Nel cuore del decennio post-moderno Coppola rivendica il diritto alla classicità, al nitore dello sguardo: non è un caso che il film tra quelli da lui diretti che viene subito alla mente sia Giardini di pietra, altra opera scopertamente politica che fa della pulizia del quadro uno dei suoi punti di forza. Era lo stesso diritto che veniva urlato in ogni inquadratura di Dracula, per poi spingere in maniera ossessiva verso il futuro: perché classico, nell’accezione di Coppola, non è mai sinonimo di reazionario, ma semmai di radicale. Ma il cinema sta andando in un’altra direzione, e a Coppola non resta che farsi da parte, continuando allo stesso tempo a cercare l’origine della lingua, sia essa parlata (come nell’adattamento di Eliade) o vista, come in Twixt. Opera ben più stratificata e politica, nel senso più ampio e puro del termine, di quanto si fosse intravisto nel 1997, L’uomo della pioggia merita di essere riscoperto, e collocato nello scranno della Storia in cui merita di stare.

Info
Il trailer de L’uomo della pioggia.

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