The Kingdom Exodus

The Kingdom Exodus

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Arriva al Lido di Venezia fuori concorso The Kingdom Exodus, che chiude la serie iniziata nel 1994 e proseguita nel 1997. “Tutto è rubato”, sentenzia Lars von Trier dopo cinque ore durante le quali si è incoronato Re delle Tenebre. Le porte del Regno si sono riaperte: a chiuderle può essere solo il Demiurgo che le ha concepite. Un sapiente gnostico. L’Anticristo del cinema. Un diavolo così scientemente sfacciato a cui è impossibile resistere.

L’Anticristo

Dopo aver visto le prime due stagioni di The Kingdom di Lars von Trier, la sonnambula Karen si alza nella notte e, in trance, raggiunge l’ospedale Il Regno in cui la serie venne girata. Qualcosa di minaccioso e orribile si muove tra quelle mura, dove tutto è accaduto ma niente è mai esistito. Ma è veramente così? [sinossi]

“Ma come si può fare una boiata del genere?”: con queste parole Karen (Bodil Jørgensen) spegne la tv dopo aver visto il delirante finale aperto della seconda stagione di The Kingdom (1997), frutto della mente “di quello svitato di Trier” come si dirà poi, nella prima sequenza di The Kingdom Exodus presentato integralmente (5 puntate di circa un’ora l’una) Fuori Concorso a Venezia. Eppure la donna, una sonnambula che dorme legata come una penitente, si divincolerà e libererà dalle proprie corde per raggiungere le porte del Regno, l’ospedale in cui la serie venne girata: sarà un animale (forse un pipistrello) ad avviare la fotocellula che la farà entrare, nel pieno della notte, nel ventre del grande policlinico. Un luogo innocuo, oggetto soltanto del dileggio di un povero pazzo (il regista, chiaramente), il cui personale non ha gradito l’apparentamento con spiriti maligni ed eterni ritorni di diaboliche entità. Eppure dopo 25 anni le porte del Regno si riaprono perché il Male minaccia l’umanità e qualcosa di inquietante si annida in quei corridoi, nei sotterranei e soprattutto nelle fondamenta stesse dell’edificio, un luogo di scienza costruito sopra un lavatoio per la sbiancatura e forse troppo dimentico della propria dimensione ancestrale, spirituale, atemporale. Vale la pena anche notare che 24 anni, invece, sono passati da quando abbiamo visto Bodil Jørgensen interpretare “Karen” un altro personaggio con lo stesso nome o forse lo stesso personaggio invecchiato e che ritroviamo qui, in The Kingdom Exodus in Idioti, film in cui una donna cercava di elaborare un lutto terribile, il più profondo dei dolori, aderendo un po’ casualmente a una comune di borghesi scemi, così boriosi da pensare di sovvertire il senso comune con troppo poco per poter anche solo scalfirlo. Due traiettorie che si incontrano nuovamente, quella di Karen e quella dell’ospedale Il Regno, popolato fin dalla prima stagione da “diversamente idioti”, luminari cretini, ignari della conoscenza e presuntuosamente fiduciosi verso le progressive sorti della modernità. Anche in questo caso “Ci vedremo ancora tra 25 anni” insomma, perché la celebre frase di Twin Peaks pronunciata daLaura Palmer nella Loggia Nera, sembra calzare anche per Lars von Trier che, a distanza di un quarto di secolo dal capitolo precedente, chiude con The Kingdom Exodus la serie televisiva aperta nel 1994. La differenza abissale tra i due progetti (quello lynchiano e quello del regista danese) è che von Trier ritorna nel luogo dell’eternamente eterno con lo stesso stile con cui lo aveva lasciato, replicandone le ossessioni e le demenze, e dando un punto definitivo al lavoro iniziato quasi 30 anni fa. Se, nel momento stesso in cui Karen varca la porta dell’ospedale, la fotografia vira dalla tonalità digitalmente bluastra a quella irrealmente rossastra che contraddistingueva le precedenti stagioni, questa volta l’esodo sarà invece tombale e devastatore.

Lars von Trier non ha mai negato di aver molto amato le prime due stagioni di Twin Peaks, di cui forse The Kingdom è anche una danese risposta, innestata nel genere ospedaliero allora in voga deformato nella maniera più grottesca immaginabile: nella prima stagione di The Kingdom a dominare era la trama horror e thriller, esca avvincente attorno a cui si muovevano le indagini della signora Drusse, una burbera e tenacissima sensitiva che voleva dare degna sepoltura allo spirito di una povera bambina, Mary. La risoluzione della faccenda comportava però qualche “effetto collaterale” con la fuoriuscita di un’orda di altri spiriti: la seconda stagione (“che come noto ha avuto molto meno successo”, si dice in Exodus) contempla ovviamente la risoluzione del nuovo problema ma si concentra soprattutto sui dirazzamenti, sospinta da trame di humor nero in cui il “medical drama” incontra una soap partorita da uno psicopatico (il magnifico Udo Kier nella parte dell’abnorme Fratellino; la love story tra la sua mamma Judith e il dottor Krogshøj; l’agnizione finale che il dottor Bondo sia figlio della signora Drusse) ed esige confitti tra i personaggi (il dottor Helmer che deve nascondere le prove di un’operazione con cui ha distrutto la vita della piccola Mona, fronteggiandosi con Krogshøj), ma disattende completamente le aspettative di chi desiderava una nuova avvincente storia con tanto di pista investigativa. L’entropia, creata in verità dall’improvvida Drusse pur animata da buone intenzioni (del resto, si sa, proprio di quelle è lastricata la via dell’Inferno), è la nota vieppiù dominante della seconda stagione che termina con un grande blackout generatore di caos, ma senza farci conoscere assolutamente le sorti dei personaggi. Se fin da principio Il Regno è dominato dal Male, quasi una delle sue terrene sedi predilette, è su questo e sul divertissement che la seconda stagione sviluppa un crescendo furibondo, spesso alogico, spassoso quanto scombiccherato. Per fortuna che è solo il film di uno svitato che compariva alla fine di ogni puntata per trarre qualche conclusione e chiederci se eravamo pronti a seguire ancora altri episodi, pronti “ad accettare il bene con il male”. “Ma come si può fare una boiata del genere?”.

In questi 25 anni Il Regno ha dunque continuato la sua vita e le sue opere cercando di dimenticare la cattiva fama dovuta allo sciroccato regista. Come in un horror giapponese, però, una sonnambula sensitiva vede un dvd e il tarlo di un pericolo imminente inizia a scavare riportando sotto ai riflettori e all’occhio del Diavolo l’ospedale maledetto. Rientrato nel Regno assieme a Karen, von Trier si scatena per ore con una mimesi della differenza, una replica del nonidentico, una rimessa in scena con variazioni in cui però assieme al mystery si indeboliscono sempre più – se non in annotazioni puramente esteriori – anche le vicende di osservanza ospedaliera: tutto il mondo, del resto, è ormai un immenso ospedale. Così The Kingdom Exodus è una riproduzione infinita, espansa e scatenata, delle dinamiche conflittuali e della cretineria umana: il suo protagonista maschile non a caso è Helmer Jr. (lo svedese Mikael Persbrandt), figlio del protagonista delle prime stagioni, l’adorabilmente odioso Helmer; sbandierato e parossistico più che mai è l’odio tra la Svezia e la Danimarca palesato ovviamente da Helmer Jr. alla fine di ogni puntata come da tradizione paterna (“Canaglie danesi!!!”); un’operazione al cervello sbagliata – causata dall’annullamento della differenza di genere sulla scheda medica di due pazienti, un uomo e Karen – dà vita a effetti imprevisti; il direttore dell’ospedale resta l’inetto Dottor Moesgaard che dopo l’operazione “Aria del mattino” questa volta inventa l’altrettanto idiota operazione “Porte aperte”; anche qui ci sarà necessità di un avvocato, interpretato da Alexander Skarsgård laddove precedentemente era impersonato da suo padre Stellan; al posto dell’ambulanza fantasma in Exodus c’è un elicottero fantasma. E si potrebbe continuare. Ma sono gli stessi personaggi a sdoppiarsi, replicandosi: “veri” medici o infermieri dell’ospedale sono al tempo stesso memori della serie e i pochi di loro che sono rimasti nel corso degli anni ritornano nelle vesti in cui li avevamo lasciati, come se fossero rimasti in attesa di una nuova “chiamata”, aiutando Karen (che del resto è una signora Drusse ma molto più fideistica e meno brillante) a esplorare i meandri dell’orrido posto su cui si affaccia anche la porta dell’Inferno. In questi meandri vive ancora Fratellino (un LETTERALMENTE gigantesco Udo Kier: visione stupefacente) che ben lungi dall’essere morto è diventato l’organismo che struttura interamente l’ospedale mentre, nel profondo, nelle fondamenta, esistono doppelganger (dall’eternità?) che non fanno ben sperare. La replica è ineluttabile e l’umano è un replicante del tempo – viene citato, sardonicamente, anche il monologo celeberrimo di Rutger Hauer in Blade Runner – perché immemore e perché non vuole capire che “Il creato è pieno di dolore e tenta invano di comunicarlo”. Attratta dalla fede, che è desiderio di non conoscenza, l’umanità tenta di risolvere ancora una volta l’irrisolvibile Male senza saper accettare che la Creazione è il Male: le conseguenze sono “Impotenza, caos, panico”. Per un cristiano, la blasfemia probabilmente scorre a fiumi in un film in cui la sentenza definitiva arriva la vigilia di Natale, la simpatica coroncina che adorna le feste prende fuoco, un Gesù bambino si rompe e al suo posto un inserviente mette la riproduzione in 3D di un demone partorito dalle mura stesse dell’ospedale. “La fede è convinzione, non conoscenza” e l’eroina della storia, Karen appunto, non è scalfita da dubbi: Satana ha gioco facile nell’inganno e nella vittoria. “Satan Rules” dirà l’aiutante del Diavolo, un demoniaco Willem Dafoe che si trasforma di tanto in tanto in gufo (perché i gufi non sono mai quello che sembrano) e con facilità buggera la sensitiva. È infatti una pulsione priva di intelligenza quella per cui Karen va, senza capirne le conseguenze possibili, dal Custode della soglia, ovvero Fratellino divenuto Fratellone (e nel cui cuore c’è una riproduzione dell’ospedale), generando così una concatenazione nefasta che rende Il Regno totalmente vulnerabile. È in fondo sciocco e pericolosissimo giocare con le porte che dividono gli spiriti della luce e quelle delle tenebre. Ed è evidente che il Bene, se non riesce a capire il Male, è destinato a soccombere…

Se Il Regno attendeva placido e marciscente da 25 anni, “l’alter-ego” ingegnere di Lars von Trier de La casa di Jack (2018) dopo essere caduto nel fuoco eterno deve essere rinato Architetto perché, molto più che nel suo ultimo film per il cinema, in The Kingdom Exodus il regista si ritaglia il ruolo di un Lucifero miltoniano, di un Demiurgo assoluto, facitore del vero e del falso, portatore del Male. Lo sapevamo già, perché ne è intrisa la sua opera, eppure nell’ultima parte di questa grande serie il regista lo sottolinea ulteriormente: l’arte è portatrice di dubbio, di maligno e se il dubbio è portatore di conflitto, il maligno va fronteggiato senza essere negato. La verità è semplice: “Io so le cose” come avrebbe detto Justine in Melancholia. Le fondamenta della conoscenza non dogmatica sono basiche, crudeli e così elemenari da voler tenacemente essere dimenticate in nome di una vacua bontà, di un possibilismo della speranza, di una idolatria del progresso sulla quale al massimo si può edificare un ospedale nella palude, un cottolengo dell’umanità da cui usciremo massacrati. O creare una società basata su servizi telefonici automatizzati. L’Antricristo arriverà, anzi è sempre qui, mentre qualcuno penserà che è positivo comprare armi avvolte in imballaggi al 100% riciclabili, qualcun altro lotterà per rendere fluidi i generi negandone l’esistenza e altri ancora metteranno a punto software o nuovi mobili Ikea tanto comodi e avanzati da essere inutili. L’Antricristo arriverà e distruggerà, ben prima del progresso, il progressismo beota in cui, assai più che negli anni Novana, siamo immersi. Ma l’atto del creare come gesto distruttore è in fondo al centro, fin dall’incipit, di The Kindgom Exodus poiché è tramite la finzione del regista – le precedenti stagioni della serie – che prende le mosse anche l’ultimo capitolo, rendendo la rappresentazione più vera del vero e portando innocenti non troppo illumminati alla tragedia. Vedere (eccezionale la gag dell’occhio e del cucchiaio) è infatti un atto non necessariamente conoscitivo ma pulsionale, banale: chi domina la visione (il regista) è diabolico e manipolatorio, ma chi guarda non può credere a ciò che vede senza farsi domande. “Guardare e imparare: l’esodo è un’arma a doppio taglio” viene ripetuto più volte nel corso del film.

“Tutto è rubato” è infine il messaggio che ci lascia, firmato, Lars von Trier dopo 5 ore in cui si è incoronato Re delle Tenebre, perché quel che prevale, sempre e dalla prima stagione della serie, è l’ironia, la risata, il sarcasmo. Così è inutile anche credere che il Grande Architetto dietro la telecamera tenga davvero le fila della propria impresa, sia autore totale di qualcosa che lo precede, lo attraversa e poi lo seguirà nonostante se stesso: i furti di The Kingdom Exodus non si contano e la categoria dell’originalità è un’invenzione tanto comoda quanto sterile. Ci sono le anime dei morti che ballano come ne Il settimo sigillo, la sparizione dei doppi come in Twin Peaks: The Return, una citazione che fa davvero ridere da C’era una volta in America (la loggia massonica delle prime stagioni si è ridotta a una fumeria d’oppio popolata da decrepiti insepolti) e una melodia ridancianamente morriconiana sfocia nell’overture di Tristano e Isotta di Wagner già usata da von Trier stesso. Un auto-riciclaggio con tanto di presa in giro insomma. Sì, von Trier produce crudeltà e maligno perché non c’è niente di innocuo, neutro o grazioso nell’arte e nella conoscenza. Ma The Kingdom è anche e soprattutto il terreno filmico in cui il regista danese più se la gode nel corso dei decenni, per cui ha scritto trame impregnate di pura scemenza giocando con le gag, il ridicolo, l’incompiuto, le macchiette, le situazioni più paradossalmente cretine, senza preoccuparsi che tutto torni (anzi), senza l’ansia di una logica stringente. In totale, furiosa libertà. E arrivando qui a un esito che fa, ben più che paura, sbellicare dalle risate. Le porte del Regno si sono riaperte: a chiuderle può essere solo il Demiurgo che le ha concepite. Un sapiente gnostico. L’Anticristo del cinema. Un diavolo così scientemente sfacciato a cui è impossibile resistere.

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