Twin Peaks – Ep. 1 & 2

Twin Peaks – Ep. 1 & 2

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Si torna a Twin Peaks. Per viaggiare a New York, nel Sud Dakota, a Las Vegas. Si torna a Twin Peaks, e alla Loggia Nera. Ci si risveglia dopo venticinque anni, con il gigante, Mike e Laura Palmer al fianco. C’è ancora il buon Dale Cooper, ma anche il suo doppelganger libero di muoversi nel mondo “reale”. David Lynch mancava al cinema/televisione da undici anni. Un’assenza estenuante, dolorosa; tutto torna affinché nulla torni, in questo ritorno a casa dolente e visionario, vibrante di un’estetica che non si accontenta dei corpi abituali, dei tempi abituali. Fuori da tutto, dentro tutto. Una volta di più sulla breccia, tendaggio che si dissolve in una nube d’oscurità. I detrattori di Lynch continueranno a considerare incomprensibile ciò che ha solo bisogno di attenzione, e si annoia della logica statica. Bentornato, Twin Peaks.

I’ll be back in 25 years

Una stanza buia. Il Gigante annuncia all’agente speciale Dale Cooper il ritorno di Bob. All’improvviso Cooper si dissolve e lascia da solo il Gigante. [sinossi]
At night I’m driving in your car
Pretending that we’ll leave this town
We’re watching all the street lights fade
And now you’re just a stranger’s dream
I took your picture from the frame
And now you’re nothing like you seem
Your shadow fell like last night’s rain.
Chromatics, Shadow

Laura Palmer lo aveva annunciato nella prima stagione di Twin Peaks in sogno all’agente Cooper: “I’ll Be Back in 25 Years”. Che ne siano trascorsi ventisette dalla messa in onda del pilot in realtà è un dettaglio che non interessa a nessuno, perché il punto è uno solo: David Lynch è riemerso dal silenzio cinematografico nel quale si era inabissato dopo il fantasmagorico INLAND EMPIRE e ha dato una nuova vita alla sua creatura più universalmente celebre, quel Twin Peaks che troneggiò indisturbato con mezzo mondo alla ricerca della risoluzione dell’enigma “chi ha ucciso Laura Palmer?”. Oramai nel 2017 si sa che a compiere il turpe delitto fu Leland Palmer, padre della ragazza, sotto l’influsso dello spirito demoniaco Bob, il palindromico dominatore della Loggia Nera, non-luogo che appare di quando in quando nei boschi che circondano Twin Peaks, amabile cittadina nello stato di Washington a un pugno di chilometri dal territorio canadese. Proprio tra i drappi rosso fuoco della Loggia Nera si riappropria delle immagini e dello sguardo dello spettatore questa nuova serie, che è improprio definire terza, nonostante sia legata in modo indissolubile ai fatti di venticinque anni prima. Un punto su cui sarà necessario ritornare più avanti, dopo aver deviato leggermente il discorso.

Si potrebbe scrivere molto sulla partecipazione dei primi due episodi di Twin Peaks nel palinsesto del Festival di Cannes, proprio nell’anno in cui due prodotti pensati a uso e consumo della televisione hanno trovato collocazione nel concorso [1], sollevando una querelle che ha avuto almeno il merito di ridestare l’attenzione degli addetti ai lavori nei primi soporiferi giorni di festival. Rispetto alle opere di Noah Baumbach e Bong Joon-ho, Twin Peaks (come anche Top of the Lake di Jane Campion, a sua volta sbarcata in Costa Azzurra) non è, almeno sulla carta, un film. Meglio, ovviamente lo è, ma dalla durata spropositata di quasi venti ore. Twin Peaks al sole de la plage, inoltre, riporta alla mente la prima clamorosa frattura tra Lynch e Cannes, quando nel 1992 presentò in corsa per la Palma d’Oro lo stordente e incompreso Fuoco cammina con me, prequel infedele e quindi fedelissimo e sodale che osava raccontare l’oggetto rimosso del desiderio, quella Laura qui ancora viva e non solo icona necrofila. Anche nell’incipit di Twin Peaks del 2017 c’è Laura, prima nella Loggia Nera – nella ripresa del footage d’epoca – e quindi di nuovo “prigioniera” in quella fotografia che la immortala reginetta del ballo liceale, costringendola a un ruolo sociale definito, rotellina posizionata nell’ingranaggio di Twin Peaks, là dove i gufi non sono quello che sembrano. Anche Dale Cooper è ancora nella Loggia, prima giovane e poi invecchiato, unico a non essere costretto a parlare al contrario. Anche lui sospeso, come Laura che infatti gli confida “I am dead, yet I live”.
Si riparte dai drappi rossi, dunque, e dal pavimento geometrico. Si riparte dal gigante che parla al contrario. Si riparte da dove tutto era sempre finito. Si riparte da Bob, che non c’è più nella materia (Frank Silva morì venti anni fa, e qui riappare solo grazie alle capacità spettrali del montaggio, memoria immateriale che rivendica la sua nostalgia anche sui titoli di coda, con la dedica a lui e a Catherine E. Coulson, la log lady che invece ha fatto in tempo a partecipare alle riprese, pur già minata nel fisico dalla malattia che l’ha uccisa nel settembre del 2015) ma è ancora lì. C’è qualcuno qui ora sentenzia il Gigante, e anche Mike, l’uomo senza un braccio, avverte una presenza. Bob è tornato, sempre che se ne fosse mai andato. Bob/Lynch, spirito che sovverte le regole del mondo per creare nuove prospettive, magnifiche e spaventose.

In molti si metteranno in coda per dire la loro su questo ritorno a casa di Lynch; lo accuseranno di non aver più nulla da dire – c’è chi si adopera in questo discutibile sport dai tempi di Strade perdute –, di non possedere più la scintilla creativa. Accuseranno Twin Peaks di aver tradito se stesso. Tutto già scritto. Tutto già prevedibile. È la corsa alla stasi, la ricerca di un campo ovattato nel quale acquattarsi in attesa che passi la buriana. È la corsa alla reazione, alla conservazione dell’esistente, del già fruito, del digeribile. È la corsa alla preservazione del proprio status intellettuale di spettatore. Una corsa che Lynch ha sempre boicottato, con l’arma dell’immaginario, svicolando dalle serpentine troppo strette, evitando di percorrere due volte la stessa strada, perso in quella linea di mezzeria che non ha dimensione se non la notte. La notte dell’uomo. Anche nei primi due episodi di Twin Peaks domina ovviamente la notte, ma non è un retaggio “di genere”. Non ci sono gufi, anche se i boschi sono sempre lì, con i maestosi pini Douglas-fir che svettano. Il resto non è mutato, ma è invecchiato. Le acciaierie Packard sono in rovina, abbandonate al loro destino. Il Great Northern, l’hotel di lusso di proprietà della famiglia Horne è ancora al suo posto, dominante la cascata, ma non si vede nessun cliente e Benjamin e suo fratello Jerry sono oramai anziani ingabbiati nelle scaramucce cui erano abituati fin da ragazzini.
A venticinque anni dalla morte di Laura Palmer e dalla scomparsa nel nulla dell’amato agente Cooper la vita di Twin Peaks si è congelata, in attesa di qualcosa che forse non avverrà mai. Una risoluzione a enigmi così grandi le cui risposte non si possono cercare tra i boschi, o in un’indagine dell’FBI. Il corridoio del liceo è vuoto, e Lynch rallenta dolorosamente all’inverosimile il breve recupero di un’immagine del 1990, quello della compagna di scuola di Laura che corre piangente nel giardino dopo aver saputo la terribile notizia.

Il ritorno a Twin Peaks è anche e soprattutto il ritorno di Lynch alla forma narrativa per immagini in movimento, lasciata in second’ordine nell’ultimo decennio, durante il quale il regista ha continuato a esercitarsi come pittore. Se sono trascorsi più di due decenni dai fasti televisivi di Twin Peaks in mezzo c’è stata una perpetua rivoluzione, da Fuoco cammina con me al trittico scaleno Strade perdute/Mulholland Drive/INLAND EMPIRE, passando per episodi meno noti come Hotel Room e Rabbits e per il viaggio alla ricerca di sé Una storia vera, road-movie rallentato e orgogliosamente senile. Pretendere di ritrovare in tutto e per tutto le fascinazioni che si aggiravano per la mente di Lynch all’epoca significa sottostimare e in fin dei conti non comprendere l’intero percorso autoriale del regista: e preoccuparsi di ritrovare tra le pieghe della serie solo ed esclusivamente i suoi aspetti esornativi – le ciambelle, i caffè, i dialoghi impossibili di Cooper con la sedicente Diane – è un indice ancora maggiore di incomprensione alla base del tutto. C’è poi chi affermerà, senza remore, che Twin Peaks nel 2017 non ha senso, visto tutto ciò che si è prodotto sul piccolo schermo nel corso di questi anni. La verità, e i primi due episodi – il punto secante tra i due è praticamente impossibile da percepire, a dimostrazione ulteriore della volontà di Lynch e Frost di non seguire in nessun modo i dettami dell’industria televisiva – sono lì a ribadirlo con veemenza, è che non esiste nulla paragonabile a Twin Peaks. Nessuno in televisione ha avuto finora lo stesso coraggio di osare, di andare via per percorsi oscuri e totalmente personali, di trasformare la prassi, modificarla, rileggerla completamente. Se nel 1990-91 a essere svuotato di senso e ricomposto era il codice tanto della soap opera quanto del mystery, nel 2017 Lynch non si pone più neanche il problema di doversi confrontare con qualcosa a cui il pubblico è già abituato. Dentro questo racconto, che parla di nuove turpitudini e vecchi incubi, donne doppiogiochiste e “man in prison”, percorsi notturni nei boschi e gruppi musicali che si esibiscono in locali affollati, ci sono ancora Twin Peaks e Fuoco cammina con me, ma anche i film che sono venuti dopo, e quelli che avevano anticipato la serie.

Con una libertà espressiva che non ha limiti, Lynch torna perfino agli esperimenti degli esordi, come dimostrano sia le due sequenza incentrate sulla “scatola di vetro” che quella che viene definita “l’evoluzione del braccio”: niente più nano che schiocca le dita e pretende la sua garmonbozia, ma un albero artificiale con una testa/organo/cuore che pulsa e parla, rimandando tanto alla creatura di Eraserhead quanto a una versione digitale delle visioni perturbanti di Six Figures Getting Sick, e che si muovevano nell’ombra già in Rabbits e Darkened Room.
“Finding Laura”, chiede/ordina Leland Palmer a Cooper. Tutto ruota sempre attorno a lei, angelo che ha scelto il martirio, incompresa da una cittadina bigotta e moralista, ma pronta a mostrarsi all’esatto opposto. Tutto è sempre bidimensionale, ognuno ha un proprio doppelganger a operare al di fuori di sé, libero e prigioniero allo stesso tempo, incardinato e destinato a cercare una propria liberazione. Oggetto dello sguardo che si dispone con irruenta insubordinazione all’interno del recinto ottico, Twin Peaks è anche carico di quella dolenza nostalgica che è sempre stato tratto distintivo dell’opera di Lynch, e che qui trova una sua ulteriore sublimazione nell’atto del ritorno, nella riappropriazione di uno spazio-tempo già vissuto. It is Future… Or it is Past?, si interroga Mike, e ha ragione a porre la domanda. In quale tempo si sta affrontando tutto questo. Già nei primi due episodi Twin Peaks si permette ghiribizzi temporali, fa tornare in vita personaggi morti solo qualche sequenza prima. Una volta di più, scardina la struttura e libera il senso. O forse scardina il senso liberando la struttura, come nel deliquio onirico che manda all’aria con effetto tellurico la Loggia Nera, con tanto di pavimento e drappi perimetrali. Niente più soap, dunque, niente più strizzatine d’occhio al pubblico giovane, come dimostra il destino che attende i giovani e innamorati Sam e Tracey.

I primi due episodi della nuova serie di Twin Peaks, e Cannes lo ha palesato, andrebbero visti al cinema, di fronte a uno schermo abnorme. Il modo migliore per rendere loro giustizia. Così non sarà possibile per la stragrande maggioranza del pubblico, ovviamente, ma è un vero peccato. Un crimine, quasi. Nell’apoteosi della doppiezza che si materializza sullo schermo – tutti i personaggi sono o hanno un loro doppio, consapevole o meno che sia – scegliere una doppia destinazione per questo evento sarebbe apparso perfino logico, oltre che giusto. Si trema di paura ed emozione, nell’affrontare questa visione, si trema di angoscia e di eccitazione. Si trema quando si incrociano gli sguardi di Shelley Johnson e James Hurley al roadhouse Bang Bang Bar, un fremito di dolce rassegnazione per il tempo che avanza inesorabile. Lo stesso che annichilisce di fronte all’immagine della Coulson malata, prossima alla morte, e a quel saluto notturno del vice-sceriffo Hawk: “Goodnight, Margaret”. In attesa che si sviluppi questo lungo immenso corpo/film, rimangono le note dei Chromatics che accompagnano i titoli di coda con Shadow, che nella conclusione ripete all’infinito “for the last time”. Come sempre. Come mai.

NOTE
1. Okja di Bong Joon-ho e The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach, entrambi finanziati da Netflix e destinati a una fruizione puramente casalinga. Le polemiche si sono fatte così incessanti, rilanciate anche dal presidente di giuria Pedro Almodóvar, che la direzione del festival si è premurata di far sapere che a partire dal 2018 i film potranno trovare accesso al concorso solo se assicureranno un’uscita prioritaria in sala.
Info
La sigla di Twin Peaks 2017.
Il sito ufficiale di Twin Peaks 2017.
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