Avatar – La via dell’acqua

Avatar – La via dell’acqua

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Con Avatar – La via dell’acqua James Cameron torna dopo tredici anni su Pandora; la guerra è diventata una questione privata, e l’umano non ha più senso di esistere, perché il virtuale è oramai la nuova realtà. Così l’epica della wilderness sfuma nell’avventura, nel romanzo di formazione, alla ricerca della purezza di una natura “impossibile”. Un’opera che conferma Cameron come uno dei più grandi creatori di spettacolo, nel senso più puro del termine.

L’acqua, la guerra, una questione privata

Oltre un decennio dopo gli eventi del primo film, Jake Sully vive come capo dell’Omaticaya su Pandora con la sua compagna Neytiri. I due hanno avuto tre figli, Neteyam, Lo’ak e Tuk; inoltre hanno adottato una giovane Na’vi di nome Kiri, (concepita inspiegabilmente dall’Avatar della defunta Grace Augustine) e si occupano di un ragazzo umano di nome Spider, figlio di Miles Quaritch, nato su Pandora e che non è potuto tornare sulla Terra in quanto ancora neonato, ma che è cresciuto con la famiglia Sully e si comporta lui stesso come un Na’vi. Gli umani fanno però ritorno su Pandora per colonizzarla, distruggendo ettari di terra per costruire una nuova base operativa. Tra i nuovi arrivati c’è anche Quaritch, clonato in un corpo Na’vi e dotato degli stessi ricordi del suo sé originale, che aveva caricato su una chiavetta prima di morire. In un video messaggio lasciato prima dello scontro in cui ha perso la vita, Quaritch chiede al suo clone di vendicarlo nel caso dovesse morire, indicando Sully come responsabile della rivolta Na’vi. [sinossi]

“Io mi fido di te, tu ti fidi di me?”, chiede Lo’ak – il secondogenito di Jake e Neytiri, quello più scapestrato e che manda su tutte le furie il padre – a Payakan, il tulkun reietto che ha salvato il ragazzo dall’attacco di un temibile predatore marino; il grosso cetaceo, che ha una delle pinne tranciate di netto e ha un arpione conficcato in un’altra, è stato abbandonato dai suoi simili perché accusato di essere un violento. Anche Lo’ak si sente un reprobo, anche perché il cipiglio militaresco con cui il padre gestisce i figli maschi (non la piccola Tuk, e neanche Kiri, adottata ma nata dall’avatar di Grace Augustine) è anaffettivo, privo di complicità. Con Payakan Lo’ak nel mezzo dell’oceano può finalmente divertirsi, giocare alla vita in un modo che non sembra mai essergli stato concesso. “Io mi fido di te, tu ti fidi di me?”, chiede dunque al bestione marino il ragazzo, in qualche modo facendosi tramite dell’interrogativo che fin dalla primissima inquadratura di Avatar – La via dell’acqua James Cameron pone agli spettatori, e in maniera astratta al cinema stesso. Cameron si fida del pubblico, lo ha sempre fatto: si è fidato ciecamente anche quando poi quest’ultimo gli ha almeno parzialmente voltato le spalle, come accadde ad esempio con The Abyss. Si fida del pubblico, Cameron, e gli chiede di fare altrettanto. Una domanda insita già in Titanic, e prima ancora in Terminator 2 – Il giorno del giudizio, dove arrivava a ribaltare del tutto l’ipotesi narrativa che reggeva il primo capitolo, trasformando un villain in eroe; una domanda che poi tornò preponderante tredici anni fa, quando Avatar raggiunse gli schermi statunitensi e del resto del mondo promettendo non un “grande film”, ma la meraviglia stessa. Una promessa che si rinnova oggi, con il secondo capitolo di quella che dovrebbe essere una pentalogia – il terzo film è già stato girato, il quarto è in fase di riprese, il quinto è ancora sub iudice, in attesa di capire quanto incasseranno questo e il prossimo – che nei primi giorni di sfruttamento commerciale monopolizza l’attenzione di tutti, dal pubblico agli addetti ai lavori, e ovviamente agli esercenti. Ogni mattina, da giovedì scorso, c’è la corsa ad analizzare l’incasso del giorno precedente, ipotizzando il risultato complessivo che potrà ottenere il film al botteghino, suggerendo successi o delusioni. Un risultato forse inevitabile, visto che Avatar – La via dell’acqua fa la sua apparizione su un panorama quasi post-bellico, ben più delle foreste di Pandora date alle fiamme dai soldati statunitensi – e la suggestione che vuole l’umanità in quanto tale copia carbone dell’identità nordamericana è un’intuizione per niente banale da parte di Cameron, che collega questo film per esempio ad Aliens – Scontro finale – per cercare di stanare i Na’vi, depotenziando la loro resistenza.

Eppure, in questa corsa spasmodica a leggere i dati economici, tra numero di biglietti venduti, confronti sia con il capitolo precedente che con altri blockbuster usciti in sala dopo la pandemia, e media per copie, l’impressione è che si stia perdendo per strada la vera portata rivoluzionaria di Avatar – La via dell’acqua, che non è quella meramente commerciale (per quanto le sale stiano respirando a pieni polmoni dopo mesi e mesi di boccheggiamento: ma anche in questo si può vedere un rovescio della medaglia, perché gli altri titoli “natalizi” rischiano di uscire con le ossa rotte dallo scontro frontale col gigante cameroniano), né quella strettamente narrativa. Come già accaduto con il primo film, in molti si stanno sgolando per sottolineare la “norma” narrativa seguita da Cameron: in pratica la struttura non sarebbe diversa da quella già proposta nel 2009, e il film risulterebbe dunque prevedibile per lo spettatore smaliziato. Nulla da eccepire, sia chiaro: chiunque può facilmente immaginare come Jake e Neytiri debbano tornare a confrontarsi con il villain per eccellenza, il colonnello Miles Quaritch (nonostante la morte del personaggio avvenuta nel capostipite della saga), e che l’agone si sposti dagli alberi nodosi e altissimi alle profondità degli abissi marini. Quel “la via dell’acqua” non è certo scelto a caso come titolo, e lo spettacolare trailer che ha accompagnato gli ultimi mesi prima dell’uscita in sala sottolineava con accuratezza la scelta della location. Approcciarsi alla creatura fantascientifica di Cameron pensando di trovare il senso del film in svolte inattese così come in scelte inimmaginabili in sceneggiatura equivale ad aver compreso poco il senso dell’operazione condotta dal cineasta canadese. Cameron vede, come un Na’vi, ciò che elabora. Vede e percepisce il senso delle cose, il loro sviluppo emotivo e ideale attraverso la vista, l’elaborazione dello sguardo, la profondità del campo – ovviamente moltiplicato all’eccesso dall’utilizzo strabiliante della tecnica stereoscopica, mai così limpida e netta. Regista in tutto e per tutto classico, James Cameron trova la sua dimensione nell’immagine che si fa veicolo del racconto, e non nella sovversione degli schemi, o nel ricorso alla rilettura in chiave teorica o non lineare della trama. Se non si scende a patti con questa verità è difficile lasciarsi davvero coinvolgere da Avatar – La via dell’acqua, per quanto forse sarebbe sufficiente fidarsi dei propri occhi. “Ti fidi di me?”, eccola di nuovo la domanda essenziale, il punto che non si può fingere di non vedere, di non comprendere. Non si può eludere il quesito, perché Cameron sta chiedendo una volta di più di fidarsi non solo di lui, o delle sue capacità spettacolari, e neanche della macchina industriale che ha portato a termine l’operazione; Cameron sta chiedendo di tornarsi a fidare dei propri occhi per ciò che vedono, e non per quello che hanno già deciso di aver visto. In questo senso La via dell’acqua ha una portata rivoluzionaria addirittura maggiore rispetto al 2009, perché accede al campo dell’immaginario non solo per proclamare una novità, ma per ribadire un perché fortemente oppositivo alla marea montante. Quando nel 2009 Avatar raggiunse le sale il pubblico aveva ancora pochissima dimestichezza con il mondo dei cinecomic: il Marvel Cinematic Universe si era rivelato solo con i primi due titoli della cosiddetta “Saga dell’Infinito”, vale a dire Iron Man e L’incredibile Hulk. Tra Avatar e Avatar – La via dell’acqua hanno raggiunto le sale addirittura 28 film che appartengono al MCU, e per i prossimi due anni ne sono già previsti altri 6. Come la famiglia Sully che deve trovare un proprio posto nel mondo cercando di sfuggire all’ira vendicativa dell’avatar dell’uomo che Neytiri uccise con due frecce nel petto per salvare il suo amato, anche La via dell’acqua torna su un pianeta colonizzato, a combattere per difendere un immaginario che a tutti appariva oramai omogeneizzato, marcato a fuoco come fosse un legittimo possesso della Marvel. La magnificenza spettacolare di questa nuova sortita registica di Cameron, al di là dell’attesa sviluppatasi nel corso degli anni, sta lì a rivendicare con gargantuesca potenza la necessità di tornare a un immaginario stratificato per quel che concerne i blockbuster hollywoodiani; questo film svolge in qualche misura lo stesso compito che tentò di portare a termine Steven Spielberg ai tempi di Ready Player One, altro ufo per l’immaginario spettacolare contemporaneo, rimasto purtroppo quasi del tutto isolato.

Ed è interessante notare come La via dell’acqua esca finalmente in sala quasi in contemporanea con The Fabelmans, il film con cui Steven Spielberg ricorda il seme del cinema, la semenza che permette all’immagine di crescere, svilupparsi, diventare un oggetto di speculazione – e ammirazione – collettiva. Due film che in ogni caso trovano nella famiglia l’epicentro del cinema, forse perché per dirla à la Hitchcock i migliori crimini restano sempre quelli domestici o forse perché l’immagine primaria, freudianamente, è pur sempre un’immagine intima, interiore. Chi ritiene che Cameron non abbia fatto altro che affinare la propria tecnica in questi tredici anni, dimenticandosi per strada la storia, e costringendosi dunque a una copia del primo capitolo, ha ragione e torto allo stesso tempo. Ha ragione, perché la tessitura anche tecnica dell’immagine ne La via dell’acqua è veicolo primario di senso, alla ricerca di una perfezione superiore, un po’ come i tulkun che possedendo un numero infinitamente maggiore di sinapsi sono “in automatico” più intelligenti dell’essere umano; l’immagine e dunque la visione diventano l’accesso a un mondo creato dal nulla, sia idealmente che tecnologicamente. Cameron è creatore e sub-creatore a un tempo, e dunque il mondo a cui ha dato vita è di per sé il senso della visione, contiene al proprio interno tutti gli elementi di cui ha bisogno lo spettatore. Quasi a tratti si trasformasse in un Malick in VFX, Cameron abbandona la guerra su cui sembra dover concentrare lo sguardo (nella rappresentazione nativa dei Na’vi c’è spazio ovviamente anche per il sabotaggio della ferrovia, grande classico della narrazione western, ma in realtà è solo un dettaglio en passant) e si sofferma in estatica osservazione della natura, perdendosi come i suoi giovani protagonisti tra gli abissi marini, osservando Pandora come un paradiso che non può che essere stuprato dall’umano, unico essere che non accetta una posizione pre-detta nello schema naturale. Tra una rilettura del Vietnam, un omaggio al mondo maori, e una tensione quasi documentaristica Cameron supera di slancio il primo capitolo, slittando da qualsiasi confronto. Lì a dominare era la wilderness, con l’umano che si trova in un mondo ostile e deve accettarlo/combatterlo, e quindi la fantascienza si spostava in territori tipici del western, tanto nella logica narrativa (fino al duello finale, in cui o si vince o si muore), quanto nelle scelte di ritmo, di timbro, di struttura. Avatar – La via dell’acqua non è un western, ma un’avventura che non ha più come epicentro dello sguardo l’adulto e la sua trasformazione attraverso la conoscenza del luogo – si pensi a Balla coi lupi – ma l’adolescenza, il coming-of-age, e quindi il teen movie.

I protagonisti del film non sono Jake e Neytiri, che pure ovviamente svolgono un ruolo fondamentale di connettori, al punto che la vicenda si apre sulla voce narrante dell’uomo, ma i loro figli. Così come ben poco si sa di Tonowari e Ronal, a capo del clan Metkayina, che vive sulla barriera corallina della costa orientale di Pandora, ma molto si apprende della di loro figlia, e dei suoi amici. La via dell’acqua è un lento apprendistato, un percorso di formazione e non di trasformazione, e così Cameron sposa per la prima volta in carriera l’ipotesi del teen movie, appassionandosi di questi ragazzi che cercano di comprendere perché sono al mondo, e a cosa possono servire – ad esempio a insegnare agli adulti come si “respira”. Nell’afflato avventuriero Cameron condensa gran parte della sua filmografia, ritornando a una nave che affonda, a un cattivo che ha una memoria installata ed è umano e super-umano allo stesso tempo, e lega tutti questi elementi a una visione profondamente naturalista, arrivando a ribaltare la prospettiva del Moby Dick di Melville, la narrazione per eccellenza della letteratura nordamericana. L’umano è una vestigia del passato, e nessuno aveva mai osato così tanto nel sottolinearlo, anche da un punto di vista strettamente produttivo. L’umano non è più, la Terra non è neanche più nominata, è solo una lontanissima stella che di quando in quando si può scorgere in cielo. Gli avatar possono addirittura partorire (ovvio che su questo dettaglio, qui ancora lasciato nella sua forma strettamente misterica, si concentrerà l’attenzione nei prossimi capitoli), anche se dalla fusione tra l’uomo-Sully e la Na’vi Neytiri sono nati figli con cinque dita, e non quattro. Il cinema può spingersi in territori inesplorati, e ha il compito e il dovere di saper ancora costruire mondi, e l’essere umano può diventare poco più di un’erba infestante. In questo senso la dialettica tra l’umano che sceglie di essere Na’vi al di là della sua esteriorità fisica e della sua biologia (il giovane Spider) e l’avatar di un uomo che è morto e del quale possiede solo le memorie è tra gli aspetti più interessanti del film, perché già prelude alla vera tragedia in atto nel mondo di Pandora: l’essere umano è sì un’erba infestante, ma è intelligente, e non è possibile per ora pensare di sconfiggerlo. È un super predatore, in grado di uccidere un tulkun solo per estrarre l’olio – lo spermaceti – dal suo cervello, o di dare fuoco a un villaggio con l’unico scopo di sapere dove si nasconde un avatar, o infine di colonizzare perché ha già distrutto il pianeta da cui proviene. Non si può negoziare con gli umani, oramai è certo, ma non si può neanche pensare che uccidendoli scompariranno all’orizzonte. La storia dell’occidente rivive, in una rivisitazione che era già evidente nel primo capitolo, anche in Avatar – La via dell’acqua, che può ancora concedersi il lusso dello stupore estatico, della meraviglia, dello sguardo adolescente. Ma per poco. Chissà dove condurrà lo spettatore James Cameron tra due anni – questo il termine dato per l’uscita del terzo capitolo, chissà se verrà rispettato –, quando gli adolescenti saranno giovani adulti, e la guerra ritornerà ancora a infiammare le coste, e l’entroterra, uccidendo e devastando. Una cosa è certa: lo spettatore si fiderà, a occhi aperti. Come ci si fida del Cinema.

Info
Avatar – La via dell’acqua, il trailer.

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